«Avrei potuto distruggere la carriera di Martin Scorsese quando ho saputo da John Lennon che aveva usato la mia Be My Baby senza autorizzazione per Mean Streets. Fu John a convincermi di lasciar perdere spiegandomi che si trattava di un omaggio alla mia arte». Parola di Phil Spector. Mr. Back to Mono. L’uomo dall’ego grande almeno come l’Empire State Building. Eppure. Provate a compilare un elenco dei migliori dischi di tutti tempi e vi ritroverete sempre a fare i conti con Phil Spector. D’altronde Be My Baby delle Ronettes è o non è la più grande canzone di sempre e, come giustamente è stato detto, «il miglior posto nel quale essere ancora giovani?».

Dalle nostre parti i Righteous Brothers non interesseranno a nessuno ma You’ve lost that lovin’ feelin’ è stato certificato come il brano più trasmesso dalle radio statunitensi nel corso del ventesimo secolo. Senza contare che è stato Phil Spector, convocato da John Lennon, a rimettere in piedi le session di Get Back dei Beatles che sarebbe diventato poi Let it Be, un successo stratosferico che avrebbe prodotto tre singoli leggendari. Paul McCartney, però, andò su tutte le furie, tanto è vero che molti anni dopo ha fatto uscire Let it Be… Naked eliminando completamente il contributo spectoriano. John Lennon e George Harrison però, non solo furono soddisfatti del risultato, ma continuarono a lavorare con il produttore per molti anni. All Things Must Pass, Plastic Ono Band, Imagine, Living in the Material World, Concert for Bangla Desh, Rock’n’Roll, tutti recano la firma inconfondibile di Phil Spector. Persino Leonard Cohen si è fatto produrre un disco da Spector, il tanto detestato, almeno dai coheniani integralisti, Death of a Ladies Man per il quale il produttore è riuscito a convincere Bob Dylan e Allen Ginsberg a prestare le loro voci per i cori del brano Don’t Go Home With Your Hard-On (Non tornare a casa con la tua erezione).

Tra i titoli dimenticati ma fondamentali del catalogo spectoriano figura anche lo struggente Season of Glass di Yoko Ono, disco sulla cui copertina campeggiano gli occhiali insanguinati di John Lennon.
«Phil Spector ha salvato il rock’n’roll nei due anni e mezzo che Elvis Presley è stato sotto le armi» era solito ripetere John Lennon.

Cresciuto alla scuola di Jerry Leiber e Mike Stoller, il duo che ha inventato Elvis Presley e che lo chiamava affettuosamente «TopCoat», Harvey Philip Spector, nato il 26 dicembre del 1939 nel Bronx. Il nonno era un ebreo russo il cui nome, Spekter, è stato successivamente anglizzato in Spector. Phil Spector è sinonimo di «wall of sound», ossia il muro del suono, una particolarissima tecnica di registrazione che è diventata il marchio di fabbrica dei suoi successi più amati come Be My Baby (Ronettes), He’s A Rebel (Crystals), Zip-a-Dee-Doo-Dah (Bob B. Soxx & the Blue Jeans) e, soprattutto, il leggendario River Deep, Mountain High di Ike & Tina Turner. Stando a Leiber, l’idea del muro del suono venne a Spector suonando la quinta chitarra per il brano Corinna, Corinna. «Organizzavamo queste session nei Bell Studios perché l’Atlantic non ci permetteva di usare orchestre di grandi dimensioni. Non posso dire con precisione da dove provenga l’idea di Phil di usare due batterie, cinque chitarre, tre pianoforti e altri strumenti che suonavano tutti la stessa cosa allo stesso momento, ma lui l’ha fatto in modo completamente nuovo».

Spector è riuscito persino a far vendere dei dischi ai Ramones che aveva conosciuto sul set di Rock’n’Roll High School, film di Allan Arkush prodotto da Roger Corman. End of the Century, anche questo un lp odiato dai fan integralisti dei fratellini, ha prodotto tre singoli ed è a tutti oggi il disco di maggior esito commerciale della band.
L’influenza spectoriana è tale che, come racconta Nick Kent, Brian Wilson dei Beach Boys, all’apice della sua psicosi da indigestione acida, era convinto che il produttore lo facesse seguire e, così, a quanto pare, convinse dei suoi collaboratori a tallonarlo per evitare che Spector gli rubasse delle idee.

Considerato una sorta di Norma Desmond del rock, segregato nel suo castello hollywoodiano come un Kane ossessionato da Dracula, Spector ha sempre coltivato, come William S. Burroughs d’altronde, una straordinaria passione per le armi da fuoco (i Ramones li ha tenuti a bada puntandogli contro una pistola). Ed è qui che nascono i guai per il produttore. Il 3 febbraio 2003 l’attrice Lana Clarkson è rinvenuta morta nella sua abitazione. Uccisa da un colpo di arma da fuoco in bocca; denti e materia organica sparsi sul tappeto. Dopo un lungo dibattimento processuale, il 29 maggio del 2009, Spector è condannato a ben 19 anni di detenzione, lui che nel 1989 era stato accolto nella Rock’n’Roll Hall of Fame con tutti gli onori.

Phil Spector, il film di David Mamet, che giunge dopo The Agony and Ecstasy of Phil Spector, documentario diretto da Vikram Javanti, si concentra proprio sulla fase processuale e la difficoltà dell’avvocato Linda Kenney Baden (Helen Mirren) nell’orientarsi nel principio di realtà attraverso il quale si muove e vive il produttore interpretato con notevole energia da un Al Pacino trattenuto e sofferto. Mamet si rifà chiaramente alla televisione cinematografica degli anni 60 e 70, quella fatta dai vari Sidney Lumet, Robert Mulligan, Frankenheimer. Montaggio invisibile, attori sempre in rapporto con lo spazio e centralità della parola.

La sceneggiatura di Mamet tenta di evidenziare, come a prescindere dalla personalità estremamente complessa del produttore, non sia stata mai dimostrata con assoluta la colpevolezza di Spector al di là di ogni ragionevole dubbio. Con estrema prudenza Mamet ripercorre le fasi della preparazione della difesa evitando quasi del tutto di accennare alla straordinaria carriera musicale dell’uomo (anche se l’adattatore per 45 giri è un piccolo colpo di genio e non a caso compare come logo anche sui titoli di testa). A tratti, addirittura, si ha l’impressione di assistere a una prova di lettura della sceneggiatura un po’ più articolata del solito. Mamet dirige gli attori con la fermezza solita, ma gli interpreti riescono a ritagliarsi spazio e mobilità all’interno di una sceneggiatura serrata. In particolare Jeffrey Tambor, abbonato a ruoli comici, riesce a offrire un ritratto credibile dei tormenti di un avvocato, mentre Chiwitel Ejiofor, nel poco tempo a sua disposizione, evidenzia la sua straordinaria energia.
Film di fantasmi e di dubbi, quasi esclusivamente soffocato in interni, Phil Spector, l’uomo, offre a David Mamet, da sempre ossessionato dalle apparenze e dall’indecidibilità della verità, una ricchezza di materiale notevole che il regista affronta quasi con un eccesso di timore reverenziale, come se fosse lui per primo consapevole dell’enormità dell’impresa.

Considerato che Phil Spector avrà 88 anni quando potrà finalmente presentare una nuova domanda di libertà vigilata, questo film realizzato per la Hbo (e mandato in onda lo scorso 24 marzo) se non altro dovrebbe servire a riscoprire il lascito artistico di un uomo tanto geniale e visionario quanto tormentato e ossessionato. Un uomo che probabilmente sta in galera semplicemente perché la sua vita è troppo complicata per essere accettata come tale da chi ancora oggi decide chi è in e chi è out (per dirla con Serge Gainsbourg). Un uomo messo alla gogna per il possesso di troppe pistole in un paese che non riesce a smettere di venderle a chiunque abbia un documento d’identità. E come può sfuggire il sapore tragicamente scespiriano della vicenda? Phil Spector, l’uomo che ha fatto innamorare, cantare e ballare un intero paese e poi il mondo, è messo a morte in quello che è uno dei più clamorosi parricidi mai commessi dagli Stati uniti. In questo senso le tonitruanti affermazioni spectoriane, contenute nel documentario di Javanti, nel quale si autorappresenta come una vittima politica del sistema, lui che aveva prodotto Woman is the Nigger of the World di John Lennon, risuonano ancora di una sinistra possibilità di verosimiglianza.