Nella recente direzione del Pd, sul decreto lavoro, è andata in scena una delle pochissime discussioni veramente politiche di quel partito, fin dalla sua nascita. Anche una conta, certo, ma almeno preceduta da un dibattito politico; per una formazione che ha, praticamente, sostituito le primarie ai congressi, è una novità. Segno, forse, della criticità dell’argomento e di una certa turbolenza nei gruppi parlamentari.

In quel dibattito, un intervento tra i tanti mi ha colpito particolarmente; perché aveva il pregio della chiarezza programmatica, quasi ideologica. Mi riferisco al Ministro Poletti.
Egli, in sintesi, ha detto: deve cambiare l’atteggiamento verso l’impresa, che non è il nemico e non è il luogo dello sfruttamento, ma un luogo di creatività e collaborazione; non ci si può più rapportare ad essa secondo le categorie del conflitto e del contratto.
Ha detto, naturalmente, altre cose, ma questo mi sembra il nucleo del ragionamento. Fassina l’ha definito un comizio; in questo caso, secondo me sbaglia, perché invece è il chiarimento di un asse politico, dello spostamento a destra del Pd; o meglio, della fuoriuscita culturale e politica dalla sinistra, da parte del suo gruppo dirigente.

Poletti ha detto troppo poco, oppure troppo. Lì dentro, cioè nella Direzione di quel partito, non molti, ma sicuramente alcuni conoscono il famoso discorso di Togliatti su « I ceti medi e l’Emilia rossa»; per fortuna lo conoscono in molti anche fuori. Voleva essere un richiamo a quella visione egemonica, cioè all’idea che un progetto di cambiamento deve essere costruito attraverso un’idea ampia e articolata delle classi popolari, attraverso una capacità di dialogo con le parti più avanzate dell’impresa e con quelle che le politiche liberiste mettono in maggiore difficoltà? Non credo; perché in questo caso Poletti avrebbe detto davvero troppo poco; avrebbe ribadito una cosa scontata, per la sinistra, almeno – appunto – dai tempi di Togliatti. Ma, soprattutto, rispetto al decreto in discussione e all’articolo 18, sarebbe andato fuori tema. Oltretutto, credo che lui sappia benissimo (se non altro, essendo emiliano) che quell’idea togliattiana era parte integrante di un conflitto di classe e di una strategia di superamento della società capitalistica. Esattamente il contrario di ciò che lui ha auspicato nel suo intervento. Dunque, non è di questo che si tratta; se non per la furbizia renziana dell’uso strumentale e distorto di una grande storia.

No, che l’impresa capitalistica non sia tutta uguale e che tra movimento dei lavoratori e imprese possano esservi fasi e momenti di convergenza di interessi – dentro interessi di fondo che restano, oggettivamente, diversi ed opposti – è davvero troppo poco, detto nel Paese che è stato di Adriano Olivetti o di Luciano Lama. Questo può succedere assai più facilmente nelle fasi di crescita; e non sempre, anzi di rado, queste visioni illuminate sono andate a buon fine.

Nei momenti di crisi – soprattutto in questa crisi che è storica e mette in discussione assetti globali e strutture democratiche – è più facile che accada il contrario. Soprattutto se i lavoratori (tutti i lavoratori, quelli assunti e quelli precari e i disoccupati) sono resi più deboli da una mancanza di rappresentanza politica; o, peggio, se si usa la divisione tra loro – occupati «stabili» e precari – per renderli tutti più deboli ancora, per mettere nell’angolo il sindacato, usandone i ritardi reali per liquidarlo; se si usa l’articolo 18 come una clava (altro che simbolo!), da usare per scardinare residui poteri democratici nella società e nei luoghi di lavoro. E tutto questo lo fa un partito che quei lavoratori, tutti, avrebbe dovuto rappresentarli. Come se nell’impresa – che non deve essere demonizzata, ma di cui Poletti ideologicamente mistifica la realtà – tutti fossero uguali, per diritti, poteri e redditi.

Questo è il senso vero di quell’intervento, chiaro come pochi: «via il conflitto» e, soprattutto, «via il contratto». Questo presunto interclassismo è sempre ideologico, perché il bastone del comando lo hanno i più forti, su scala globale, ma anche in ogni singola impresa.

Non so quanto Poletti e Renzi siano consapevoli di ciò che fanno, o quanto siano solo arsi dal sacro fuoco di passare alla storia. Certo, nella minoranza di quel partito una qualche consapevolezza si è affacciata, forse anche sulle radici di questa situazione. Trarne le conseguenze generali richiede coraggio, senso di responsabilità e senso storico; speriamo. Ma, intanto, non possiamo aspettare; sabato a Roma Vendola e Civati saranno in piazza insieme, il 25 ci sarà il sindacato, speriamo unito. Sperare e battersi, anche per spiegare a Poletti la distanza tra realtà e ideologia.