È probabile che il vero Russiagate non sia quello in corso a Washington, ma quello che si svolgerà da qui a poco, e che per certi versi è già in corso da tempo, in Ucraina. La manovra a tenaglia su Trump avviata con l’indagine del procuratore Mueller, sembra essere spinta da quei repubblicani che vogliono tenere al guinzaglio il presidente proprio in riferimento alla Russia. Donald Trump aveva scelto di non proseguire la guerra diplomatica e commerciale iniziata già dall’amministrazione Obama contro la Russia, non certo perché uomo di pace, come dimostrato con le bombe in Siria e in Afghanistan, ma più in quanto uomo d’affari, per tutelare i propri interessi dalle parti di Mosca e avere mano libera e aprire a nuovi business con le costruzioni e le colate di cemento in America.

Lo stesso atteggiamento lo ha avuto con la Cina (altro nemico dell’amministrazione precedente): dopo aver dichiarato che non aveva alcuna intenzione di una guerra commerciale con Pechino, casualmente, un pacchetto di suoi brand ha ottenuto il via libera dal governo cinese. Questo atteggiamento del neo presidente si scontra con quel mondo bipartisan americano, sia repubblicano sia democratico, che invece proprio sull’allargamento Nato e sull’influenza Usa nelle regioni post sovietiche basa i propri, di affari. Non a caso nel giorno dello scoop del Washington Post – come ha scritto Guido Moltedo su questo giornale – «il senato ha votato con 97 voti a favore e due contrari l’indurimento delle sanzioni alla Russia». I due voti contrari sono stati di Bernie Sanders e di Paul Ryan. Subito dopo questa decisione sono arrivate le lamentele di austriaci e tedeschi: temono siano messe in discussione le forniture di gas da parte di Mosca; un elemento che aggiunge un altro punto di complessità, perché in questo scontro Usa-Russia c’è di mezzo anche l’Europa, come mercato per le risorse, tanto russe quanto americane.

A segnalare poi che l’operazione in corso a Washington non appare così misteriosa, ci ha pensato Putin. Alla domanda sul Russiagate ha detto di ritenersi più preoccupato di quanto potrebbe succedere in Ucraina: perché a breve pare ci sarà un incontro tra Trump e Poroshenko, perché il parlamento di Kiev ha chiesto all’esercito la riconquista del Donbass e di recente ha votato a favore dell’ingresso della Nato (su cui guarda caso ha frenato proprio Bruxelles).

Qual è dunque il Russiagate? Forse lo stesso disegno americano supportato anche da Obama: l’allargamento a est della Nato e lo sconquasso finale di quello che la Russia ritiene l’ultimo cuscinetto contro l’avanzata dell’alleanza atlantica, ovvero l’Ucraina. Trump al riguardo avrebbe tentennato e allora il Gop cerca di dargli dei segnali; lo scopo ultimo non è avverso neanche ai democratici che infatti gestirono tutta l’operazione «Ucraina»: chiaro dunque che Trump non rischi davvero l’impeachment. Sono gli ucraini a rischiare grosso e molto più di una messa in stato di accusa, considerando che si stima che dal 20014 le vittime di questo conflitto siano oltre 10mila e che i profughi in fuga dal paese siano stati quasi un milione.

E allora viene da chiedersi dove fosse Mueller, il procuratore che ha fama di grande investigatore e che giustamente cerca di capire se ci sono state influenze esterne sul voto che ha portato Trump alla Casa bianca, quando gli Usa reggevano il gioco delle forze di destra in Ucraina per facilitare il regime change a Kiev. Quando l’ex capo della Cia era nella capitale ucraina quasi ogni settimana e quando la collaboratrice fidata di Clinton, Victoria Nuland, si faceva intercettare urlando, «Vadano affanculo quelli della Ue, a Kiev mettiamo il nostro uomo».