Di chi è la colpa se Hillary Clinton ha perso le elezioni? Di Obama, secondo l’ultima versione che dominava le discussioni a Washington nelle ultime 48 ore.

La spiegazione starebbe nel fatto che già nell’agosto 2016 la Cia avrebbe accertato e denunciato che i russi volevano far vincere Trump ma la Casa Bianca rinunciò a rendere pubblica questa informazione per timore di essere accusata di interferire con la campagna elettorale in corso.

Nella tragicommedia americana in scena da qualche mese, i democratici si stanno arrampicando sugli specchi per trovare un responsabile alla loro storica sconfitta del novembre scorso e ovviamente Putin rappresenta il colpevole perfetto: zar di un nemico storico come la Russia, autoritario, spregiudicato. Soprattutto, è un’entità lontana e intoccabile, che permette al partito di evitare l’unica cosa veramente urgente: riflettere sui motivi per cui almeno metà degli americani ha bocciato le politiche neoliberali che Bill Clinton e Barack Obama hanno condotto quando erano al potere. La riflessione politica è tabù per i clintoniani che continuano a portare il partito democratico di sconfitta in sconfitta e hanno trovato nel cosiddetto Russiagate di Trump un comodo diversivo. Una linea d’azione che però non sta dando i risultati sperati: la stagione delle elezioni suppletive è finita 4-0 per i repubblicani, che hanno riconquistato i seggi vacanti perché i relativi deputati erano entrati nell’amministrazione Trump. Poiché il presidente è invischiato nell’inchiesta sui suoi rapporti con i russi e gode di un livello di consensi storicamente basso, il 35%, il Comitato nazionale democratico era convinto di poter strappare due o tre circoscrizioni ai repubblicani.

Erano così sicuri di questa teoria che ci hanno scommesso sopra 33 milioni di dollari in propaganda nella sola Georgia, per eleggere un trentenne con l’aria da bravo ragazzo, che sorrideva a tutti cercando di rassicurare un quartiere residenziale ferocemente repubblicano. Jon Ossoff si era affrettato a far sapere che era contrario a qualsiasi aumento delle tasse, come pure al servizio sanitario universale proposto da Bernie Sanders ma la candidata repubblicana Karen Handel ha vinto comunque.

È vero che i democratici hanno fatto molto meglio nel 2017 di quanto non avessero fatto pochi mesi fa, quando i repubblicani avevano vinto quegli stessi seggi con margini spettacolari, ma nel sistema di collegi uninominali non ha importanza se si ottiene il 18% o il 48%: si perde comunque. Per di più, le circoscrizioni sono disegnate in modo da favorire quasi ovunque i repubblicani e quindi anche un aumento sostanziale dei voti per i democratici nel 2018 potrebbe non modificare gli equilibri della Camera, dove ora i repubblicani hanno 24 seggi di maggioranza.

Per il Cook Political Report, è pressoché certa la riconferma dei candidati uscenti in 369 seggi su 435, ed è molto probabile lo stesso risultato in altri 30 seggi, per un totale di 399.
I seggi effettivamente in bilico sarebbero appena 36: vuol dire che ai democratici potrebbe non bastare una maggioranza del 55% dei voti su scala nazionale per guadagnare 24 seggi e riconquistare il controllo della Camera.

Le loro possibilità sono naturalmente legate all’affluenza alle urne, che è «il» problema delle elezioni americane: martedì scorso nella 6° circoscrizione della Georgia hanno votato circa 260.000 elettori, 50.000 in meno di quanti avevano votato nel 2016. Purtroppo, il 2018 è un anno di elezioni per il solo Congresso, quindi la partecipazione al voto sarà fra il 35% e il 40% degli aventi diritto: una strada tutta in salita per i democratici. Non solo: lo zoccolo duro del loro elettorato è fatto di giovani e minoranze etniche, categorie che tendono a votare in proporzione molto meno dei bianchi, degli anziani e dei benestanti. Quindi i democratici, se vogliono riconquistare la Camera e arginare Trump hanno bisogno non dell’improbabile Russiagate ma di una forte mobilitazione di base attorno a temi sentiti dalla gente, oltre che di candidati capaci di suscitare un entusiasmo sufficiente. Con l’attuale gruppo dirigente clintoniano non sembrano in grado di riuscirci.