Le difficoltà che Sergio Mattarella sta incontrando nel tentativo di risolvere la crisi stanno mettendo a dura prova la consolidata teoria della «fisarmonica» come proposta da Giuliano Amato, in base alla quale i poteri del presidente della Repubblica – definiti in maniera «ambigua» dalla Costituzione – si allargano o si restringono in proporzione inversa alla capacità di iniziativa e alla forza dei partiti in parlamento. A due mesi dal voto, proprio l’incapacità delle forze politiche (venute su nella logica maggioritaria del «vincitore» e catapultate in un sistema neo proporzionale) si riflette nella impossibilità del capo dello stato di proporre una soluzione alla crisi post elettorale. La cui durata record, al momento battuta solo dalla formazione del primo governo Amato (in quel caso però si dovette eleggere anche il presidente della Repubblica), assume i tratti di un cambio di fase. Il capo dello stato non è più contenuto e vincolato dal protagonismo dei partiti forti, né al contrario può agire come «re della Repubblica» al cospetto di forze politiche in crisi, com’è stato per lungo tempo tra il 1992 e il 2014, ma appare frenato nella sua azione proprio dall’inconcludenza dei partiti.

Vedremo gli sviluppi. Sono passate già tre settimane da quando Mattarella, registrata l’impossibilità di dare vita a una maggioranza, aveva annunciato una sua iniziativa «per uscire dallo stallo». L’iniziativa è stata un nuovo giro di consultazioni. E poi un altro ancora, affidati il secondo e il terzo ai presidenti di senato e camera. Ora siamo al quarto giro di consultazioni, dopo di che il capo dello stato rischia di trovarsi davanti a un bivio tra due soluzioni impraticabili: le elezioni, che proprio al Quirinale ritengono di dover escludere, e il governo «di tregua» che forze politiche decisive in questo momento rifiutano.

Dal punto di vista costituzionale i poteri di iniziativa del presidente della Repubblica restano ampi. Li ha nuovamente definiti una recente sentenza della Corte costituzionale, quella che nel 2013 ha deciso sul conflitto di attribuzioni tra Napolitano e la procura di Palermo che voleva acquisire al processo «trattativa» le conversazioni telefoniche del capo dello stato. Secondo la Consulta, il presidente della Repubblica è «organo di moderazione e di stimolo nei confronti di altri poteri, in ipotesi tendenti ad esorbitanze o ad inerzia». Siamo evidentemente nell’ipotesi dell’inerzia. «In ipotesi di stasi o di blocco», aggiunge la Corte costituzionale, il capo dello stato adotta «provvedimenti intesi a riavviare il normale ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali». La perduranza del governo Gentiloni, che non gode della fiducia del nuovo parlamento e che è uscito politicamente a pezzi dalle elezioni, non è evidentemente un esempio di «normale svolgimento» del ciclo costituzionale. Serve un nuovo governo.

È certo che di fronte a leader di partito che si propongono per un preincarico, pur sapendo di non avere i voti in parlamento, al capo dello stato non è preclusa la possibilità di scegliere un presidente del Consiglio incaricato al di fuori delle indicazioni dei partiti. Ma i precedenti che si possono richiamare risalgono appunto alla fase in cui il «mantice della fisarmonica» presidenziale era assai aperto, durante il settennato di Scalfaro (governo Ciampi, e in una certa misura anche governo Dini) e durante il primo mandato di Napolitano (governo Monti).
Non mancano neanche precedenti più o meno recenti di governi «a scadenza»; la durata in questo caso sarebbe legata alla necessità di scrivere e far approvare una legge di bilancio che eviti l’aumento dell’Iva. Nel novembre 2011 Napolitano fece sapere con due successivi comunicati che l’esecutivo Berlusconi sarebbe rimasto in carica solo il tempo necessario all’approvazione appunto della legge di bilancio (allora «stabilità»). Si trattò però di un intervallo di pochi giorni. Qualche affinità in più con la situazione attuale ce l’ha forse la dichiarazione del presidente del Consiglio Dini, che nell’ottobre del 1995 annunciò in parlamento che si sarebbe dimesso entro la fine dell’anno, considerando il suo mandato limitato all’approvazione della legge finanziaria. Una dichiarazione politica (non certo un vincolo costituzionale) che convinse un partito ostile a Dini – Rifondazione comunista – a non mettersi di traverso e consentire la durata dell’esecutivo. Evitando così, allora, l’esercizio provvisorio.