Quando si pensa alla cultura russa ottocentesca non viene in mente che vi fosse interesse per la cultura classica. Eppure, la spinta verso occidente che dall’età di Pietro il Grande rese familiari le architetture neoclassiche o le conversazioni in francese tra nobili ebbe anche questa ricaduta. Una pagina dei Fratelli Karamazov dà voce chiara all’oppressione generata in inquieti adolescenti dall’obbligo di studiare a scuola il latino e il greco, che in effetti ebbero gran parte nell’istruzione secondaria della Russia ottocentesca. Il potenziamento del curricolo classico anche a livello universitario produsse risultati notevoli, in particolare nel periodo tra il 1870 e la rivoluzione del 1917. Certo, quel mondo è oggi poco noto: i lavori pubblicati in lingua russa sono rimasti per vari motivi poco accessibili (non quelli, assai importanti, scritti in latino o tedesco), e la cesura del bolscevismo ha poi allontanato la memoria delle fasi anteriori. Meglio conosciuta è rimasta la vicenda di alcuni emigrati, come il grande storico Mihail Rostovzev (1870-1952), passato dopo il 1918 da san Pietroburgo a Yale.
A richiamare il senso di quella fase, a ricucire la trama di persone e di libri, a rievocare i modelli dell’istruzione e delle istituzioni culturali, è uno specialista di Russia, Ettore Cinnella, con Lo zar e il latino Gli studi classici in Russia tra Otto e Novecento (Della Porta Editori, Pisa, pp. 260, euro 17,50). La storia della cultura classica nell’Ottocento russo è forse, per prima cosa, un aspetto del rapporto con la cultura tedesca. Quando si decise di potenziare l’insegnamento, esso venne affidato dapprima soprattutto a docenti venuti dalla Germania: August Nauck (1822-’92) fu il più celebre. Alcuni dei professori tedeschi usavano fare lezione, in latino, sopra le severe tecnicalità della Methode applicata alla filologia e alla storia. Non dovette essere un incontro facile: l’esito nel modello formativo russo fu vario. Nei ginnasi il latino e il greco lasciarono in alcuni studenti un senso di soffocamento per l’aridità di uno studio quasi solo grammaticale: successive riforme ridimensionarono le due materie, ritenendone eccessivo lo spazio. Nota Cinnella che, a livello governativo, il favore o sfavore verso l’insegnamento classico era legato anche a una valutazione sui suoi effetti «politici»: alcuni credevano che ne venissero atteggiamenti conservatori, altri temevano invece che suscitasse pericolosi pensieri sovversivi. Certo è che lo studio del mondo antico valorizzava la cultura pagana, e che l’approccio classicistico o storicistico non portava verso la tradizione cristiana della Russia: per la quale pure il greco (bizantino) poteva rappresentare un punto di interesse.
Nelle università il condizionamento politico fu spesso pesante. Qui non molti furono gli antichisti «puri»: tra gli storici, per esempio, l’apertura verso il Medioevo fu frequente. Ma i migliori studenti perfezionavano le proprie conoscenze in Germania o in Francia, o viaggiavano in Italia e Grecia per vedere i resti delle antiche civiltà. Negli studi letterari, come in quelli storici, epigrafici e archeologici si distinse l’ateneo di San Pietroburgo. Dall’interesse per i «fatti» e i materiali, spesso prevalente, vennero alcuni studiosi «positivisti», e dentro questo filone di ricerca si formò anche Rostovzev. Noto in Occidente per le fondamentali ricerche economiche e sociali sull’impero romano (1926) e sull’ellenismo (1941), egli fu uno studioso «totale», in cui si superava la separazione tra filologia e storia, tra epigrafia e archeologia. Cinnella ne rievoca l’importante ruolo nella Russia pre-rivoluzionaria (ebbe tra i propri studenti anche Kerenskij), cui seguì un rapido e definitivo distacco nel 1918. L’idea, spesso ripetuta, che le ipotesi di Rostovzev sulla fine dell’impero romano e la sua lettura dell’ellenismo come età «borghese» derivino dall’esperienza (ossia dai traumi) della rivoluzione sovietica viene qui ripensata in maniera convincente: prevalente risulta la continuità con alcuni studi e posizioni giovanili.
Il libro di Cinnella, che giunge fino al grande cambiamento del 1917-’18, evoca bene lo smarrimento di alcuni studiosi di fronte all’epocale svolta che travolse il loro mondo. Le ricerche antichistiche uscirono mutate dalla rivoluzione. Nei decenni successivi, la spinta politica portò a valorizzare soprattutto temi storici (come la schiavitù) e di cultura materiale. Alla circolazione dei lavori in occidente si oppose, oltre alla barriera linguistica, anche quella ideologica. Alcuni libri furono però conosciuti attraverso mirate traduzioni: per esempio N.A. Masckin, Il principato di Augusto (1949), Roma 1956; Sergej L. Utcenko, Cicerone e il suo tempo (1971), Roma 1975; E.M. Staerman, M.K. Trofimova, La schiavitù nell’Italia imperiale (1971), Roma 1982, etc. Quali direzioni abbiano preso gli studi classici russi dopo gli anni novanta è forse precoce dire, pur se alcune indicazioni sono disponibili (A. Mehl, Al. Makhlayuk, O. Gabelko, edd., Ruthenia Classica Aetatis Novae: A Collection of Works by Russian Scholars in Ancient Greek and Roman History, Stuttgart 2013). Non serve gran che avere «nostalgia» della fase prebolscevica: come non servirebbe il rimpiangere il tempo dello humanistisches Gymnasium tedesco. Ma certo, guardando agli studi prima del 1917, resta l’impressione di una linea che non si è evoluta, ma è stata bruscamente spezzata. Alla storia degli studi, ormai, il compito di ricomporla.