Sono otto, ma l’unico a volgere lo sguardo verso di noi è il cardinale Carlo Borromeo (il santo cardinale: l’arco di un filo sottile di luce vibra appena, levita su di lui). Borromeo mostra uno dei chiodi del supplizio di Cristo che è stato applicato ad una alta croce grazie a un ritorto congegno metallico che lo sostiene. La sua mano destra non indica la reliquia, ma piuttosto la esibisce invitando alla venerazione, col palmo aperto, in un gesto di ostensione che l’altra mano accompagna. Il volto di Carlo è emaciato e un’ombra di barba ne accentua le fattezze. La croce, appoggiata a terra, è sostenuta da un sacerdote e da un giovane chierico.

E vedi un terzo religioso che apre le braccia, quasi fosse per abbracciare a sua volta l’asse di legno. Alle spalle del cardinale, sulla sinistra, scorgi i volti di tre chierici giovinetti. Uno regge l’asta che inalbera un piccolo crocifisso di bronzo e indica il chiodo sulla gran croce; l’altro, appena adolescente, viene spegnendo, le gote gonfie, la fiamma della lunga candela che gli è stata affidata. Il terzo, più arretrato, è volto intensamente al sacro chiodo. Sulla sinistra, infine, l’ottavo personaggio, seminascosto, porta il suo sguardo verso qualcuno o qualcosa che ha attirato la sua attenzione e, per un momento, sembra prescindere dal fervore che anima gli altri accanto a lui. Quel fervore lo puoi seguire nel movimento delle molte mani di quanti stanno attorno alla croce.

Puoi numerare dodici mani ciascuna in una diversa attitudine, applicata ciascuna ad un compito, ad un gesto: sostenere, indicare, soccorrere. Fin qui la descrizione della scena che vede il cardinale Carlo Borromeo e i suoi sodali portare in processione il santo chiodo della croce. Vale come cronaca di una cerimonia religiosa, come il racconto che ne faccia un devoto che vi ha preso parte. Potrebbe, con l’impiego delle medesime parole, riguardare una messa in scena di carattere teatrale. È che mi trovo nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, a Roma, davanti a una tela di Carlo Saraceni (1580-1620), un dipinto che porta l’arte della pittura ad un grado eccelso. E la descrizione che ne ho fin qui fatta nulla della pittura descrive o dice. Dice del ‘soggetto’ del quadro d’altare commissionato a Saraceni. Ma il ‘soggetto’ non è il dipinto. Ne è, concedo, lo spunto. È l’occasione che Saraceni trasforma qui in pittura.

Descrivere la pittura non è raccontare il ‘soggetto’, esporre l’‘argomento’, riferire l’avvenimento ‘illustrato’. Le illustrazioni dipinte di casi memorabili, di luoghi celebrati, di uomini illustri sono oggetto degli studi storico-artistici. Illustrazioni innumerevoli conservate nelle quadrerie, nei musei, nelle chiese; suddivise e catalogate per epoche, generi, scuole eccetera. Altra cosa è la pittura. La pittura si afferma raramente. È arduo raggiungimento che si appura nella perfezione e unicità d’un’opera. E quell’opera perfetta impone alla pittura il compito d’una ricerca ulteriore che può realizzarsi a distanza di decenni, magari dopo che una pletora di seguaci ne possono aver replicato gli esiti fino alla estenuazione. Perfetto il San Carlo indica ai fedeli la reliquia del Sacro Chiodo, la pittura davanti alla quale resto avvinto. Tento di dirla.

Vi si concentrano bianchi, neri e rossi purissimi in raccordi che si dispiegano nel registro inferiore fin oltre la metà dello spazio complessivo della composizione. Nero di cappe e tonache quasi palpate per virtù di pittura, rosso di sete accarezzate come lisciare il bianco di lini plissettati. Bianco fulgido, intatto che orla un rosso squillante. I bianchi e i neri si muovono in reciproche scansioni dal risalto eclatante. Assisto al sobbalzo che scatta lungo i margini quando rosso e nero si affrontano e nella congiunzione resta fissato l’impeto, l’irruenza dei contatti delineati. Una controllata sequenza di volate, di accelerazioni, di strepiti e clamori che si esaltano nella triplice attestazione apodittica del rosso, del bianco, del nero. Mi avvedo che il grado cromatico assoluto della pittura di Saraceni che ho di fronte sarà assimilato e inverato, nello svolgimento dei neri, dei rossi e dei bianchi, tre secoli dopo da Alberto Burri.