Era iniziata alle ultime Giornate del cinema muto di Pordenone, prosegue in questi giorni alla Berlinale, e attraverso tappe in altri archivi (Filmmuseum di Vienna, MoMA) tornerà alla George Eastman House di Rochester, che detiene l’archivio Technicolor: si tratta della maratona che rende questo l’anno del Technicolor, cui appunto Berlino dedica la retrospettiva. L’archivio di Rochester ha pubblicato per l’occasione un volume monumentale, di 450 pagine illustratissime, in uscita ufficiale il 24 febbraio ma già prenotabile a poco più di 40 euro. L’abbiamo in mano, e si presenta subito con la massima eleganza: la costa è nei due colori del primo Technicolor, rosso e verde, che si manifestano a seconda di come lo si inclina, e il segnalibro, anch’esso a due colori, lo si trova in apertura alle note dove più serve per approfondire un testo non solo documentato ma di piacevole lettura. The Dawn of Technicolor 1915-1935 ha per autori due studiosi, James Layton e David Pierce, capaci di unire l’acribia all’appeal, mentre i precisissimi curatori editoriali sono Paolo Cherchi Usai e Catherine A. Surowiec.

Alla George Eastman House di Rochester, che ha pubblicato il volume (con un contributo delle Giornate del cinema muto), è già aperta fino al 26 aprile una grande mostra sulla Technicolor, che espone anche la collezione di migliaia di boccette di pigmenti utilizzati per il sistema. Il momento più auratico, imperdibile anche per chi è poco portato ai voli intercontinentali, sarà la prima edizione di The Nitrate Picture Show, con anteprima il 30 aprile e proiezioni full-time dall’1 al 3 maggio di copie d’epoca in nitrato: una cosa irrealizzabile in Italia, viste le norme quasi da antiterrorismo sulla pellicola infiammabile. Nel momento in cui molti di noi sono costretti a far notare che nel passaggio dal 35mm al digitale qualcosa della luce e della matericità della visione si è irrimediabilmente perduto, il GEH rilancia e farà vedere la luce del nitrato che, per chi è nato dopo gli anni ’50, non si è più vista, rendendo visibili le pellicole originali nelle migliori condizioni di proiezione. Inutile chiedere al curatore Paolo Cherchi Usai quali film saranno programmati: giustamente ci tiene alla segretezza, anche perché dopotutto qualsiasi proiezione in nitrato sarà un’esperienza visiva che non potrà deludere. Ma chi scrive, se mai potrà andarci, ha la segreta speranza di vedervi anche il nitrato che l’archivio conserva di Stage Struck con una coloratissima e sublimemente glamourous Gloria Swanson, film diretto da quell’Allan Dwan che non solo è uno dei massimi cineasti di tutti i tempi ma ha partecipato nel modo più fascinoso, in varie epoche, all’esperienza del colore nel cinema, da alcuni film a due colori degli anni ’20 all’altrettanto glorioso colore anni ’50 per Benedict Bogeaus: Slightly Scarlet (in Italia Veneri rosse) sarà nel 1956 una di queste meraviglie, con le rosse Rhonda Fleming e Arlene Dahl. Perché sono i capelli rossi di donna ad aver più che mai imposto il colore nel cinema, da Clara Bow in Red Hair a Pauline Starke in The Viking alla Nancy Carroll di Follow Thru la cui pubblicità diceva che prima del Technicolor «non sapevo che avesse i capelli rossi»! Ma persino la moglie del maggior fondatore della Technicolor, Herbert T. Kalmus, Natalie Kalmus che divenne supervisore alla stampa di tutti i film del sistema fino alla fine degli anni ’40, pur non essendo stata un’attrice e non essendone note foto a colori, pare avesse affascinato Herbert con il colore rosso-dorato dei capelli e il blu-nocciola degli occhi.

Questo volume scientificissimo ha il merito di cogliere negli aneddoti quella flagranza del reale che il cinema rivela, e di cui il “sogno” di dargli un colore è stato fondamentale: non a caso la Technicolor sottolineava che il suo era un «100% natural color» pur sapendo quanto “artificiale” ne fosse la ricreazione, tra tecniche additive e sottrattive, e pluralità di matrici che dal negativo in bianco e nero generavano un colore. La storia del volume, che come dice il titolo tratta dell’alba del colore, si ferma a metà anni ’30 perché in quel periodo si passò dal sistema a due colori a quello “completo” a tre colori. Ma anche da lì in poi molte tappe tecniche dovevano ancora essere attraversate (e speriamo che gli autori del volume ce ne diano un seguito): fino a metà anni ’50 la Technicolor userà la stampa da tre matrici, che rende oggi certi film a colori di costosa ristampa. Se gli archivi europei vogliono degnamente competere con questa iniziativa della GEH, potrebbero restaurare in copia colore a 35mm un film come Maddalena di Genina, dove il Technicolor di Claude Renoir donava in tutto lo splendore gli occhi di Marta Toren, che da molti decenni forano la barriera del bianco e nero senza potersi rivelare in tutto lo splendore di icona. Le immagini che accompagnano questo articolo possono testimoniare di come l’adozione del colore contenesse un forte impulso all’icona, esemplarmente incarnata dalla Mary Pickford madonna per The Gaucho di cui sono rimasti frammenti essendosi il progetto interrotto. Ma anche la Gloria Swanson destinata a emblema di diva al tramonto trova nell’alba del colore lo splendore di icona mutevole (sembra già il colore che muta l’incarnazione di Kim Novak in Vertigo), presentandocisi qui come vergine e seduttrice zingaresca.

Ma è impagabile nel volume il racconto di come il geniale tecnico e psicologo Leonard T. Troland, dopo aver trattato il problema delle “impronte da lepre” che sembravano segnare la pellicola, cercasse lungamente di scoprire le ragioni di un ultimo difetto di stampa cui non si trovava rimedio finché si scoprì che il tecnico addetto alla stampa sostituiva con dell’acqua parte dell’alcool della soluzione destinandolo al contrabbando. L’aneddoto ci diverte ma insieme rivela come il cinema nasca costantemente dal rapporto col reale, da quello delle componenti chimiche a quello delle debolezze umane alla forza che il corpo in immagine incarna.

Pur essendosi la rassegna pordenonese circoscritta al muto, e pur fermandosi il volume al primo lustro del sonoro, sono le vicende di tutto il cinema che vi si delineano. Oltre a Dwan si intuisce, negli esperimenti sui musical di passaggio tra muto e sonoro, la figura di Vincente Minnelli, massimo pittore di cinema. Ma si scopre anche il sogno del colore di registi che non vi pervennero o vi pervennero appena, da Griffith a Murnau a Stroheim a Maurice Tourneur (e aggiungeremmo Dreyer che non giunse al colore forse per il troppo attendersi da questo miracolo). Scopriamo inoltre degli essenziali “minori”, dal direttore di fotografia Ray Rennahan a Howard C. Brown che negli anni ’50 creerà il proto-mondo-movie The Mating Urge (non a caso citato dal colorista Makavejev) ed è col “tridimensionale” Arch Oboler uno di quei cineasti del margine da aggiungere ai geniali Ludwig, Weis, Eichhorn…

Non a caso agli inizi degli anni ’30 quelli che più determinatamente “sognarono” la vita a colori del cinema sono il genio dei geni Walt Disney (e il suo modesto e non meno geniale partner Iwerks andrà in altri rivoli di colore rispetto al Technicolor), il produttore dei produttori David O. Selznick (che si affiderà a William Cameron Menzies) e uno degli uomini più esteticamente motivati dell’altro grande tycoon Thalberg ovvero Albert Lewin che renderà colorata Pandora la già massima incarnazione del femminile Ava Gardner. Senza dimenticare il forse limitato ma pur splendente Rouben Mamoulian che firma il primo lungometraggio integralmente a tre colori, Becky Sharp.

Insomma fu vera gloria quella del Technicolor, il volume del GEH non lascia dubbi. A quando in Italia una scoperta convergente del più artigianale genio italico della Ferraniacolor? Quest’anno a Locarno, per la Titanus, si è vista la copia unica d’epoca di La spiaggia di Lattuada con Martine Carol, in stampa Technicolor da negativo Ferraniacolor, e il matrimonio uscitone è stato sublime.