Trasformare sofferenze, scoperte, incontri, viaggi, burocrazia, accoglienza, razzismo e amore in una «comune favola di migrazione». Lo fa Luca Giommoni in Il rosso e il blu (effequ, pp.256, euro 15), libro in cui le tinte della realtà e quelle dell’immaginazione sfumano all’orizzonte, confondendosi e disorientando. Nelle avventure di personaggi dai nomi musicali – Malang, Makamba, Fagadan, Babatunde – storie vissute e problemi concreti si sollevano da terra per mostrarsi attraverso le lenti soffici della finzione. Oppure succede l’opposto: i pensieri e le fantasie masticano e restituiscono con maggiore crudezza (e crudeltà) il reale.

«QUEGLI ALIENI vestiti da trafficanti li facevano imbarcare, e poi, come guardia costiera, li andavano a recuperare e li riportavano indietro, dove si facevano ritrovare, di nuovo, nei panni di guardie carcerarie», ricorda Benedict. Unico tra i prigionieri dei centri di detenzione libici ad aver capito di essere finito in mezzo a un grande esperimento, perché non possono essere uomini a fare simili cose. Né in terra, né per mare. La trasfigurazione di uno dei suoi tentativi di attraversare il Mediterraneo provoca una fitta allo stomaco: sulla barca «all’inizio, Benedict ha avuto paura di morire. Poi, alla vista dei sorrisi degli alieni camuffati da guardia costiera, ha avuto paura di non morire».

La narrazione ha il baricentro nel centro di accoglienza Arcobaleno, ma poi ruota intorno a ognuno dei personaggi introdotti man mano. C’è chi ha lasciato il Mali per ridare armonia al mondo assegnando il giusto rapporto tra acqua fredda e acqua calda ai rubinetti di tutti i Paesi. Chi dal Bangladesh è venuto in Italia solo per cambiare nome e farsi ribattezzare Billy Idol. Chi ha saputo di Dublino che rispedisce i richiedenti asilo nel primo paese d’approdo e va a cercarlo in un pub irlandese.

IN QUESTA FAVOLA gli stranieri non sono soltanto le persone nate in un altro paese. C’è anche qualcuno che si sente «straniero nella sua nazione», come diceva un verso di una canzone di alcuni anni fa. Come Valerio che ha paura di rimanere schiacciato dalla sofferenza che i migranti si portano dietro e gli sbattono involontariamente in faccia. O Manfredi, che combatte discriminazioni e razzismo a colpi di fialette puzzolenti, ma di fronte ai decreti sicurezza che minacciano il futuro di Arcobaleno sente di crollare, di avere addosso una maledizione: «Ogni volta che ho un lavoro, interviene lo Stato e me lo porta via. Pensavo che questa volta lavorando per lo Stato e lavorando bene non succedesse, invece siamo alle solite».

COSÌ SE IL LIBRO è favola, è una favola quasi documentaristica quella che si incontra tra le pagine. Del reale cambia più il registro che i contenuti. E nei titoli di coda non c’è alcun lieto fine, soltanto una constatazione: nonostante le ingiustizie, nonostante le frontiere, c’è ancora spazio per gesti d’amore.