Un soffio di vento preannuncia una timida pioggia. È domenica, la maggior parte delle sedi sanitarie, universitarie e culturali che durante la settimana animano i 22 ettari del Parco di San Giovanni sono chiuse. Eppure, è facile incontrare qualche nonna che fotografa i nipoti tra i roseti o intere famiglie che passeggiano con i loro cani. Quasi tutti gli edifici sono di colore giallo e nel tempo sono stati riqualificati. Il posto delle fragole, storico bar ristorante, è aperto. Decidendo di fermarsi, anche solo per un caffè, qui è possibile sfogliare La Collana 180 – Archivio critico della salute mentale, che in un attimo ti catapulta nel passato, narrando il cambiamento epocale avvenuto tra queste vie e queste mura che, dal 1908, sono state per decenni l’orribile palcoscenico del manicomio triestino.
Attraversare questi luoghi, a quarant’anni esatti dalla rivoluzione basagliana, che ha permesso l’apertura dei cancelli grazie alla Legge 180, dà la sensazione che il 1978 non si limitò a restituire la parte sana a coloro cui era stata negata. Da allora, Trieste si riappropriò anche di uno spazio ammaliante e prezioso, ancora inselvatichito, poi curato nei dettagli, che oggi ospita un roseto diffuso. Il suo progettista Vladimir Vremec ha realizzato alcune singole collezioni che contano in tutto seimila piante, tremila varietà ordinate rispettando l’originaria struttura architettonica del parco. Attraversare questi luoghi oggi significa anche rileggere la storia dietro le rose della rivoluzione di Franco Basaglia e dei suoi colleghi, come Peppe Dell’Acqua, alla guida del Dipartimento di Salute Mentale per 17 anni, fino al 2012.

«Nel 1971 con Franco Rotelli (psichiatra, già direttore dell’Azienda Sanitaria triestina, ndr) siamo rimasti colpiti dalla bellezza di questo parco e dal dolore che esprimeva – racconta Dell’Acqua – San Giovanni d’ottobre ha dei colori intensi, verde e arancio. Dall’interno dei reparti che andavamo a visitare, sentivamo il cattivo odore e da lì vedevamo il parco. Si stringeva il cuore pensando che davanti a questa straordinaria bellezza c’erano 1200 persone in quelle condizioni».

La trasformazione che avvenne in seguito non fu compresa subito, neanche dai suoi protagonisti. «Ha a che vedere con qualcosa che non eravamo neanche in grado di sognare – continua Dell’Acqua – Nella mia memoria quei giorni sono dissolti in una quantità di cose che non mi hanno fatto registrare ciò che stava accadendo, lo abbiamo capito molto tempo dopo». Così la città riscoprì una parte di sé, le aiuole vennero curate e liberate da piante infestanti e da un profondo sottobosco. Negli anni settanta i malati cominciano a uscire e la gioventù triestina a entrare, sospendendo il pregiudizio e, come si diceva, «portandosi fuori i matti sulle spalle». Tra questi ragazzi c’era anche Pino Roveredo, diventato poi scrittore e vincitore del Premio Campiello. «Siamo stati testimoni inconsapevoli di quella che fu la scintilla di una grande rivoluzione. Lì incontravamo Dario Fo, Gino Paoli, gli Area. Fu anche, per tutti, una rivoluzione culturale». Ma Roveredo, come racconta nei suoi libri, era stato, poco prima, un ex paziente.

«Sono entrato in manicomio nel 1971, a 17 anni, per un episodio di “alcolismo agitato”. All’ospedale Maggiore un medico mi guardò e diagnosticò “unguento di scimmia e una notte in gabbia”. Scortato da due infermieri, mi spogliarono e mi bastonarono: quella era la procedura per i ragazzini di 17 anni e per una donna di 80. La mattina dopo mi portarono in manicomio, che per noi era il luogo della vergogna». Roveredo incontrò anche Franco Basaglia. «Quando l’ho visto per la prima volta, mentre entrava nello stanzone dove trascorrevamo la mattinata, l’ho scambiato per un malato di mente. Era il primo medico che appariva senza camice». Pino Roveredo, oggi Garante dei diritti dei detenuti del Friuli Venezia Giulia, è tutt’ora di casa a San Giovanni. Non più come utente, ma come operatore sociale: svolge diverse attività di scrittura e di teatro.

Nel roseto superiore incontriamo Giancarlo Carena, giunto a Trieste come infermiere psichiatrico nel 1979. Ci attende seduto a un tavolo di pietra, sul quale stende una mappa del parco risalente al 1903, donata dagli eredi dell’architetto Ludovico Braidotti. «In origine era disegnata su una stoffa – spiega – e da quando esiste abbiamo una nuova concezione del parco. Ci siamo chiesti… chissà cosa vedeva Braidotti? E osservandola a lungo abbiamo pensato: rose!»

Carena è il presidente della cooperativa sociale Monte San Pantaleone, nata nel 1978 per occuparsi di verde e di giardini storici. In collaborazione con l’Università degli Studi di Trieste, organizza il festival Rose libri musica e vino, giunto in queste settimane alla sua ottava edizione. Una rassegna dedicata non solo alle persone con disagio mentale ma a chiunque non veda ancora garantiti i propri diritti. Tra le rose del parco, durante lezioni universitarie all’aperto e con ospiti come Caterina Chinnici e Giusy Nicolini, quest’anno si discute di donne, migranti, minori e vittime delle mafie.

«La deistituzionalizzazione credo debba restituire un surplus che è la bellezza – sottolinea Carena – Su questo ragionamento abbiamo lavorato, anche 20 anni fa quando soffrivamo per lo spazio vuoto». La cura e la vitalità che riempiono questi spazi sono la prova di una grande azione collettiva di salute mentale, un incrocio di storie, desideri e prospettive. Da due anni tra questi vicoli non ci sono più gli ospiti della psichiatria perché un importante obiettivo abitativo è stato realizzato: i loro nomi ora sono «scritti sui campanelli». Tra questi, c’è anche quello di B., la cui storia, indimenticabile per i più, meriterebbe un racconto a parte. Una pittrice che sminuzzò quasi tutte le sue opere, realizzate nel laboratorio P, lo stesso in cui prese vita Marco Cavallo. «È una rivoluzione che non finirà mai, altrimenti smetterebbe di essere tale», ci ricorda infine Peppe dell’Acqua.