Come è stato possibile che la maggioranza degli elettori britannici abbia scelto oltre due anni fa di abbandonare l’Unione europea sposando le tesi della Brexit? Nel suo nuovo romanzo, Il taglio (pp. 154, euro 15,00, traduzione di Riccardo Duranti) che, come i precedenti, esce oggi per 66thand2nd, Anthony Cartwright rovescia molti dei luoghi comuni sull’argomento, descrivendo come quella vicenda sia stata vissuta a Dudley, il sobborgo operaio in declino nel cuore del Black Country, dove è nato e cresciuto e che rappresenta da sempre lo scenario, sia simbolico che materiale, delle sue straordinarie storie.

Cairo e Grace, i protagonisti del romanzo sembrano incarnare le due anime della società inglese che si sono misurate, e contrapposte, nel corso del referendum sulla Brexit. Cosa rappresentano per lei?
All’inizio possono apparire come due figure stereotipate. Quasi come se fossero personaggi dei tarocchi, ma naturalmente molto inglesi, o della tradizione del Music-hall: l’operaio di Dudley, nella Black Country dell’Inghilterra settentrionale e la giornalista dei quartieri del Nord di Londra, spesso descritti come «radical-chic». Cairo scava tra le rovine delle fabbriche abbandonate da tempo alla ricerca di rottami metallici e sogna di riprendere la carriera da pugile che però non lo ha mai portato da nessuna parte. Grace è una regista, abituata a intervistare le persone vittime del conflitto nei Balcani ma che conosce poco o nulla della Gran Bretagna operaia. In un certo modo volevo che rappresentassero le due polarità dello scontro politico che ha diviso, e divide ancora oggi, il paese, se non proprio due diversi modi di essere della Gran Bretagna. Anche se, per ironia della sorte, in circostanze normali avrebbero entrambi votato per il Partito laburista. Detto questo, il loro incontro parla anche di quanto ho vissuto personalmente, se si può dire della mia stessa storia personale. Soprattutto per definire la figura di Cairo ho pescato nei miei ricordi. Le strade in cui Cairo corre, per tenersi in forma in vista di un possibile ritorno sul ring, sono le stesse in cui sono cresciuto. Lui passa davanti alle case in cui la mia famiglia viveva e nelle quali alcuni miei parenti vivono ancora. Sono nato e cresciuto in quella cittadina, a Dudley, ma ora vivo nel Nord di Londra e ho trascorso circa venti anni in entrambi i luoghi. E quello che posso dire è che nel frattempo la distanza tra il centro da cui provengo e la città in cui vivo ora non ha fatto che crescere da ogni punto di vista: economicamente, socialmente, politicamente. Così, pian piano, anche Cairo e Claire da stereotipi si trasformano in individui che misurano se stessi e i loro sentimenti con questa crescente distanza, cercando però per le loro vite risposte e soluzioni inedite.

La realtà descritta nel libro induce a pensare che ben prima del distacco di Londra da Bruxelles vi sia stato un altro abbandono: quello che intere regioni come la Black Country, e più in generale il vecchio mondo industriale e operaio, hanno subito ad opera delle istituzioni e della politica britanniche. Di fronte alla prospettiva che i propri sogni andassero in fumo, da queste parti si è risposto votando per il «leave»?
L’abbandono è reale. La perdita è reale. Il dolore è reale. La rabbia è giusta. È questo che i leader politici del paese avrebbero dovuto dire, se non prima almeno dopo il referendum, rivolgendosi alle comunità delle ex regioni industriali. Eppure, non ho ancora sentito pronunciare da nessuno frasi di questo genere, ed è una vera vergogna. Mentre, durante la campagna elettorale, l’unico che si sia fatto vedere in zone come queste è stato Nigel Farage, il capo dell’Ukip, il che spiega anche come questo partito sia diventato così popolare in un tempo brevissimo. A spingere in molti verso la Brexit non è stata principalmente l’avversione all’immigrazione, come è stato spesso detto. Certo, quello è un tema che ha trovato molto spazio nel corso della campagna referendaria, ma il motivo di fondo credo sia stato questa rabbia che ha preso la forma di un tentativo di vendetta. Del resto, se tu fossi nella situazione in cui si trovano queste persone, privati di un futuro e di speranze, non saresti spinto a fare la stessa cosa? Lasciare l’Unione europea ha spinto il paese verso una situazione ancora più difficile, ma a tanta gente quel voto è apparso come una sorta di atto di sabotaggio, per quella via pensano di essersi vendicati.

Anthony Cartwright

Cairo guida Grace tra i tunnel e le grotte scavati sotto il castello di Dudley, dove il mondo industriale perduto incontra le vestigia di antiche civiltà. Due realtà sembrano svilupparsi in parallelo, anche se quella forgiata un tempo intorno alle ciminiere è ormai condannata all’invisibilità. Il percorso che conduce alla Brexit inizia da molto lontano?
In un certo senso sì. Le basi materiali del disastro cui assistiamo oggi furono gettate da Margaret Thatcher fin dalla fine degli anni Settanta, ma ci sono anche pesanti responsabilità che si sono accumulate negli anni di governo laburisti sotto la guida di Blair e Brown: anche allora si è consentito che la disuguaglianza economica crescesse senza sosta, rendendo sempre più evidenti le divisioni sociali all’interno del paese e tra una zona e l’altra. Sono seguiti altri nove anni di di governo conservatore inetto e moralmente corrotto che ha inoltre agito sotto la pressione dell’Ukip e dell’estrema destra. Così, mentre questa deriva si faceva sempre più evidente, «il mondo» di Cairo diventava pian piano invisibile. A proposito di Dudley ho scritto che «la geologia è il destino». I tunnel e le caverne sotto la città sono frutto di scavi nella pietra calcarea, mentre la linea del carbone era molto vicina alla superficie. La Black Country era così importante all’epoca della rivoluzione industriale grazie a queste due risorse che però a loro volta rappresentano l’eredità di un oceano preistorico, di barriere coralline e giungle tropicali che hanno lasciato una traccia fossile quasi ovunque nella zona di Dudley. Perciò, l’idea che un mondo abbia finito per celarne un altro, o per renderlo invisibile non è solo una metafora cui sono ricorso nel romanzo, ma una delle possibili chiavi di lettura della realtà della Gran Bretagna di oggi.

Come detto, lei non sembra attribuire particolare valore ai temi xenofobi che sono stati agitati dai sostenitori della Brexit. La famiglia del protagonista del romanzo è «mista» e gli stessi attivisti locali dell’Ukip organizzano un incontro in un ristorante indiano. Crede davvero che il tema dell’«invasione» degli immigrati abbia influito così poco?
Ovviamente quella che ho raccontato è una storia specifica, particolare. Cairo è solo una delle diciassette milioni e mezzo di persone che hanno votato per il «leave». Ho scelto volutamente che incarnasse il mondo che conosco, nel quale sono cresciuto, e ne offrisse soprattutto un ritratto sociale, ma certo non posso negare che il tema dell’immigrazione ha giocato anch’esso un ruolo nel determinare l’esito del referendum. È talmente brutto che è perfino difficile da ammettere. Però, in questa regione – le West Midlands -, già prima del voto accanto all’attivismo dell’estrema destra si è registrato anche un fenomeno inverso di integrazione crescente dei migranti, tema che ho affrontato in Heartland, uno dei miei romanzi precedenti. Non posso parlare per alcune aree dell’Est dell’Inghilterra, dove l’immigrazione dall’Europa orientale è un fenomeno recente e si è trasformata da subito in una sorta di emergenza politica, ma queste parti si è prodotta una realtà più complessa. Quel che però volevo trasmettere nel libro è che, malgrado la propaganda razzista sia una terribile evidenza, il modo stesso in cui scorre la vita quotidiana del paese induce a dubitare che tra gli inglesi ci siano diciassette milioni e mezzo di razzisti.

Questo non è il solo punto su cui le parole di Cairo sembrano smentire la lettura della Brexit che va per la maggiore. A due anni dal voto le ragioni che hanno spinto molti in quella direzione non sono state ancora comprese?
Temo di no. I leader politici e i media hanno cercato di trovare risposte facili, spesso attingendo a piene mani nel pregiudizio per valutare chi ha votato per lasciare la Ue. Come spiega Cairo, le ragioni profonde del voto hanno radici lontane, cause che si sono andate accumulando per decenni. Eppure, anche di recente qualche segnale per capire l’accaduto è emerso: penso in particolare all’accusa mossa di recente al nostro governo dal relatore speciale delle Nazioni Unite sulla diffusione della povertà nel paese. Il problema è che gran parte della leadership britannica proviene da un contesto sociale così ristretto – scuole private, università d’élite, e così via – che semplicemente non è attrezzata, non possiede proprio gli strumenti anche solo per capire come viva la maggior parte delle persone in vaste aree del paese.