Siamo nel dipinto di un interno. La prospettiva vi è quasi totalmente azzerata. Fiori e arabeschi sono disseminati ovunque. Sembrano combinazioni di note che incessantemente interrompono un ritmo per crearne di nuovi. Due cornici vuote in alto a sinistra anticipano e sovrastano uno specchio grande. Qui, a fianco di un camino, si prolunga uno scorcio arbitrario dal centro della camera dove le tre melanzane in primo piano scompaiono nelle decorazioni della tovaglia di un tavolino. Alle sue spalle il paravento mobilita un elettrico zigzag che corre verso la finestra aperta su un paesaggio. Ma il paesaggio coi suoi gentili moti ondosi ci riporta ancora all’interno del quadro.
Siamo a Collioure, sulla costa francese nel distretto dei Pirenei Orientali, sul finire dell’estate del 1911. Qui Matisse dipinge questo Intérieur aux aubergines. Vi si istalla per dare sostanza alle sue ultime ossessioni decorative, dopo che l’anno precedente ha visitato a Monaco una grande mostra sulla cultura visiva islamica e dopo un viaggio nella Spagna moresca di Cordoba e Granada. In fondo Matisse vuole rovesciare il sistema dell’immaginario occidentale. La lezione orientale gli è propizia in termini di disorientamenti decorativi e accostamenti cromatici. Vuole integrare nelle energie del quadro lo sguardo dello spettatore. E lo fa a partire dalla radioattiva esperienza fauve del quadro come «blocco luminoso» che sei anni prima, insieme col giovane sodale Derain, era nata proprio a Collioure.
Già La Liseuse 1895 del Matisse allievo di Gustave Moreau all’École des Beaux-Arts di Parigi ha tutti i temi cari al Matisse più maturo. Uno spazio domestico, la decorazione della carta da parati, il dipinto nel dipinto, sembrano aspettare solo il tempo della decantazione della sua esperienza artistica. Di quel farsi segno incurante del dettaglio che lo porta nel corso degli anni a una «vera e propria violenza decorativa» (come Schapiro), alle grandi dimensioni murali, al pirotecnico libro d’artista Jazz del 1947. Questa esperienza artistica, cruciale del Novecento, è ben spiegata in una lettera del 1941 quando Matisse scrive: «che vita di tormento (…) quando un’acuta sensibilità ti impedisce di fare affidamento su un metodo di supporto. Ne sono completamente sconvolto e ricordo che tutta la mia vita è trascorsa così – un momento di disperazione seguito da un felice momento di rivelazione che mi permette di fare qualcosa che va oltre il ragionamento».
Alla luce di queste confessioni, possiamo ben comprendere le oscillazioni di Matisse rispetto alle proprie ricerche. E per ritornare all’Intérieur aux aubergines, più volte rimaneggiata da Matisse e mai veramente apprezzata dalla critica dell’epoca, è un’opera che per la sua radicale scelta decorativa ha avuto un riconoscimento tardivo grazie a un testo di Dominique Fourcade del 1974 sulla rivista «Critique», dal titolo Rêver à trois aubergines…, fortemente influenzato dall’estetica di Clement Greenberg. Matisse viene visto come l’acceleratore di quel processo di astrazione come immagine in cui la realtà fisica e il significato aderiscono completamente l’uno all’altro. In cui non si chiede allo spettatore di partecipare come a una finzione teatrale. Senza un inizio né una fine, senza una narrazione sottostante, l’opera è circolazione incessante di energie visive dove tutto è in relazione con tutto e il centro è ovunque.
Quest’opera, che appartiene alla collezione del Musée de Grenoble, è oggi riconosciuta come la più importante di Matisse in territorio francese. Ed è attualmente il prestito più prestigioso per la mostra al Centre Pompidou che celebra i centocinquanta anni dalla nascita del maestro: Matisse, comme un roman, curata da Aurélie Verdier (catalogo euro 45,00; in corso fino al 22 febbraio, ma attualmente il museo è chiuso causa Covid-19). Con più di duecentotrenta opere e settanta documenti d’archivio, questa mostra attraversa la carriera di Matisse (anche con giuste incursioni nella scultura), dagli esordi fino alle ultime immagini realizzate attraverso i papiers découpés. Il titolo, comme un roman, rende anche omaggio a quell’inclassificabile e capitale oggetto editoriale che Aragon ha pubblicato per i tipi di Gallimard cinquanta anni fa, nel 1971: Henri Matisse, roman (ed. italiana, Rizzoli 1971). Con un approccio personalissimo, Aragon cerca di penetrare l’enigma matissiano, il suo divenire segno altamente novativo. Vale la pena ricordare un brano in cui Aragon scrive che il Matisse delle origini, con le sue prime nature morte o scene d’interni, oscure e comunque dai colori poco squillanti, lascia a malapena presagire il Matisse delle opere più mature: «Senza dubbio era questo quello di cui temeva Gustave Moreau quando al suo allievo diceva: lei semplificherà la pittura! (…) Non esito a schierarmi contro la formula di Gustave Moreau – scrive Aragon – : Matisse ha reso più complesso il problema del dipingere, più complicata la pittura, ponendo a tutti i pittori a venire l’esigenza dell’invenzione, un’esigenza incessante che apre i tempi nuovi della pittura».