A quarant’anni dal suo suicidio, la profezia fatta alla propria agente letteraria prima di darsi la morte sembra finalmente avverarsi: «sarò molto più famoso da morto». Si tratta di Bryan Stanley Johnson, poeta, narratore, drammaturgo, documentarista e giornalista impegnato, la cui parabola artistica si compie nell’Inghilterra postbellica fino a quel fatidico novembre del 1973, in cui fu trovato morto a Londra, a soli quarant’anni, con le vene ai polsi tagliate.
A quel suo nome doppio e un po’ goffo, Bryan Stanley, lui preferiva le iniziali B.S. – che nel vasto repertorio delle abbreviazioni inglesi sta per bullshit, ovvero cazzate. Ma di cazzate BS ne scrisse davvero poche. Anzi, da romanziere sperimentale come la critica vuole ricordarlo – esponente di una tradizione che da Sterne passa per l’amato Joyce e arriva fino a quel Beckett che fu, insieme a Burgess, tra i suoi ammiratori – stupisce alquanto la sua personale insistenza sul fatto che i termini novel e fiction non siano sinonimi. Lo ripete nell’introduzione a una raccolta di brevi prose del 1973, dal titolo Aren’t You Rather Young to be Writing Your Memoirs (it. Non sei piuttosto giovane per scrivere le tue memorie?): «il romanzo è una forma proprio come il sonetto; all’interno di questa forma, si può scrivere di cose finte o di cose vere. Io scelgo di scrivere di cose vere, in forma di romanzo».
Quando morì, BS Johnson aveva alle spalle una prolifica carriera di romanziere, perennemente in polemica con i colleghi più famosi: «È sconcertante quanto sia antimoderna la gran parte dei romanzieri: continuano a scrivere da più di quarant’anni come se la rivoluzione dell’Ulisse non fosse avvenuta». Ironico, allora, che proprio un romanziere, Jonathan Coe – il quale della nitida prosa veritiera di Johnson si era infervorato ai tempi dell’università – ci abbia regalato tempo fa una sua corposa biografia (Come un fiero elefante, Feltrinelli, pp. 526, euro 28), vincitrice del prestigioso premio intitolato a un altro Johnson famoso, il settecentesco dottore delle lettere.
A ridosso dell’edizione italiana, uscì per Rizzoli l’opera forse maggiore di B.S., The Unfortunates (it. In balìa di una sorte avversa, Rizzoli, pp. 170, euro 22), l’unica disponibile nella nostra lingua. Si tratta del compimento di un percorso sperimentale che condusse l’autore a uscire dai vincoli della tradizione romanzesca, con il suo attaccamento a un realismo che non è realtà. L’allontanamento non è solo contenutistico, ma spavaldamente formale: le varie sezioni del libro, non numerate, sono inserite non rilegate in un cofanetto, così da lasciare al lettore la libertà di scelta su quale percorso intraprendere e su come muoversi all’interno della storia.
Questa presunta libertà accordata al lettore si scontra, nella magmatica estetica di Johnson, con altre sue affermazioni critiche: come quando spiegò, non senza una punta di acrimonia, che «riguardo ai lettori, si dice spesso che continuino a leggere romanzi perché ciò gli consente, non come i film o la televisione, di esercitare la propria immaginazione… non coi miei di romanzi… voglio che le mie idee siano espresse con tanta precisione da lasciare uno spazio minimo all’interpretazione. Dico di più, se un lettore riesce a imporre la propria immaginazione sulle mie parole, la mia scrittura si dimostra un fallimento».
Osservazioni, queste, difficili da accettare del tutto, perché tenderebbero a cancellare l’arbitrarietà insita nel linguaggio in tutte le sue rappresentazioni. E questo Johnson lo sa: «la lingua è ovviamente uno strumento impreciso per ottenere precisione: la stessa parola avrà significati lievemente differenti per ognuno. Ma ciò va oltre le mie capacità: non posso controllarlo. Posso soltanto usare parole che significhino qualcosa per me; resta la semplice speranza… che significhino la stessa cosa per gli altri».
Questa, come tante altre chimere inseguite da un simile campione della «veridicità narrativa», fanno parte di quello che potremmo definire il suo glorioso fallimento di scrittore. Ma come Beckett insegna, la costanza nel fallire porta a fallire meglio, e in ciò risiede il motivo della grande attualità pionieristica e lungimirante dell’opera di BS Johnson.
Esce in questi mesi per Picador un prezioso volume curato da Jonathan Coe, Philip Tew e Julia Jordan, dal titolo Well Done God. Selected Prose and Drama of B.S. Johnson (pp. 472, £ 25), che raccoglie tanti scritti da decenni irreperibili. Tra questi, il citato Aren’t You Rather Young, insieme a sei drammi e una serie di pezzi giornalistici dallo stile inconfondibile. Il giornalismo di Johnson aspira ad assecondare le naturali esigenze di onestà intellettuale, nel portare avanti quello che vedeva come un dovere, ovvero l’accuratezza nella cronaca, e la forma, lo stile letterario; anche quando si descrive una partita di calcio. Il libro, nel rendere di nuovo disponibile al pubblico anglofono (e si spera anche di altre lingue, se editori avveduti sapranno cogliere la palla al balzo), tutta una serie di scritti dimenticati ma dal gran valore (soprattutto alla luce degli sviluppi contemporanei, neo-dickensiani direbbe B.S., della narrativa inglese) è una di quelle operazioni culturali dal valore astorico, che nel tentativo di bypassare mere considerazioni commerciali e di mercato propongono alla platea dei lettori non una serie di storie ben scritte, con un inizio e una fine ben definiti, ma un oceano di riflessioni all’apparenza scomposte, ma profondamente vere e profetiche.
Come nell’articolo del lontano 1971 in cui, riflettendo sulle strategie di Rupert Murdoch, padrone del tabloid Sun, Johnson argomenta: «Murdoch non ha aumentato la platea dei lettori di giornali; ne ha alterato gli equilibri grazie all’infima astuzia di un uomo senza scrupoli». Il che lo porta a una delle sue tante sferzate definitive, con cui ancora oggi piace ricordarlo: «Murdoch dà l’impressione di desiderare i soldi come la gente normale desidera fare sesso».