«Quando mi dicono: “Vai a casa!”, rispondo: “Sono già qua». È a “Cara Italia” di Ghali, stella della trap nato a Milano da genitori tunisini, che si potrebbero rubare le parole per tentare di descrivere quale sia il rapporto che intercorre tra le cosiddette «seconde generazioni» e la narrativa italiana: non con una sorta di comparto esotico domestico dello scrivere, ma con la letteratura nazionale tout-court.

Lungamente indicato attraverso la formula di «letteratura della migrazione», lo spazio che occupano autrici e autori «nuovi» rispetto al paesaggio editoriale esattamente come lo sono altre/i in contesti come quello dell’hip-hop e delle sue trasformazioni, delle culture urbane più in generale, o del volto stesso acquisito dal paesaggio sociale del nostro paese, indica infatti un orizzonte che si è in qualche modo già compiuto.

Nomi come quelli di Amara Lakhous, Igiaba Scego, Ornela Vorpsi, Laila Wadia, Anilda Ibrahimi, Gabriella Kuruvilla, Elvis Malaj, Ingy Mubiayi, Gëzim Hajdari, Tahar Lamri, Ron Kubati, Helene Paraskeva, per non citarne che alcuni, volutamente indicati senza tener conto del tipo di carta d’identità che hanno in tasca bensì dello spazio di senso culturale cui partecipano, rappresentano già a tutti gli effetti la poesia e la narrativa italiana. Del resto, nella banca dati istituita nel 1997 presso l’ex Dipartimento di Italianistica della Sapienza di Roma da Armando Gnisci, già docente di Letteratura comparata nello stesso ateneo, alcuni anni fa comparivano oltre 1500 opere letterarie firmate da quelli che venivano presentati come 481 «scrittori migranti», di cui 270 donne, appartenenti a ben 93 nazionalità.

Per capire il ruolo che autori e autrici giocano all’interno della lingua e della narrativa nazionali si può guardare al caso di Amara Lakhous, scrittore, giornalista, antropologo nato in Algeria ma diventato cittadino italiano e a lungo tra in protagonisti della scena culturale capitolina, che con il romanzo Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, pubblicato dalle Edizioni e/o nel 2006, ha giocato con i canoni della commedia all’italiana cinematografica, ma anche di rimando con il capolavoro di Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, nonché con l’emergere della storica piazza non lontana dalla Stazione Termini come l’epicentro di una nuova identità meticcia della capitale.

A detta di Lakhous, che ha ribattezzato questi nuovi protagonisti delle lettere nazionali, a partire da se stesso, come «scrittori italiani non italianissimi», sono due gli elementi fondamentali che servono per definire un testo letterario. E, in questo caso, l’intreccio tra identità, mondi culturali e esperienze di vita che l’inedita presenza di questa narrativa di seconda generazione ha già promosso nella cultura italiana. «Il primo – spiega Lakhous – è il linguaggio, poiché un testo letterario è lavorato sulla base dello stile, che è poi il linguaggio. Il secondo elemento è “la visione”: nel testo letterario l’autore racconta la realtà e direi, ne anticipa anche il futuro».

Elementi che ritornano in quel fortunato romanzo che segnalò oltre un decennio fa l’emergere, all’epoca ancora embrionale, del fenomeno. «Per quanto riguarda “la visione” – spiegava ancora Lakhous, credo che nei miei romanzi sia presente uno sguardo nuovo sulla realtà italiana e penso che il successo di Scontro di civiltà si debba proprio a questa voglia di raccontare la storia degli altri, la storia di Roma e di Piazza Vittorio con uno sguardo sulla realtà e sulla società».

Ancora più in là su questa traiettoria conduce Oltre Babilonia, uscito per Donzelli nel 2008, tra le opere più significative di Igiaba Scego, scrittrice e giornalista nata a Roma da genitori somali che ha all’attivo oltre una decina di opere, nel 2011 ha vinto il Premio Mondello con La mia casa è dove sono, edito da Rizzoli.

Scego «attraversa» la lingua italiana, trasformandola da espediente comunicativo in traccia di una condizione esistenziale, di un mondo in divenire che si nutre di molte fonti. Zuhra, la protagonista di Oltre Babilonia, romana di origine somala cerca se stessa nello spazio della lingua, fino a conquistarla entrandone a farne parte.

«Mamma mi parla nella nostra lingua madre. Spumosa, scostante, ardita. Nella sua bocca il somalo diventa miele. Ma io, come la parlo questa nostra lingua madre? Le mie parole puzzano di strade asfaltate, cemento e periferia (…) In somalo ho trovato il conforto del suo utero, in somalo ho sentito le ninnananne che mi ha cantato, in somalo ho fatto i primi sogni. Ma poi, in ogni discorso, parola, sospiro, fa capolino l’altra madre. L’italiano con cui sono cresciuta e che ho anche odiato, perché mi faceva sentire straniera. L’italiano-aceto dei mercati rionali, l’italiano-dolce della radio, l’italiano-serio dell’università. L’italiano che scrivo».
Quando il viaggio si compie, tornano le parole di Ghali: «Sono già a casa!».