Venerdì 17. Anno 2017. La cabala o più semplicemente il caso. Totò Riina è morto.

Il suo cuore s’è fermato alle 3.37 nel reparto sanitario del carcere di Parma, dove stava scontando 26 ergastoli in regime di carcere duro, quello che cercò di fermare con la stagione stragista che ha cambiato la storia dell’Italia.

Si chiude il cerchio di un «romanzo» criminale terribile per il Paese. Dopo Binnu Provenzano, se ne va anche lui: il padrino. Il capo dei capi. Totò ‘u curtu (il corto, ndr) il soprannome più gentile. La bestia, lo definì il pentito Tommaso Buscetta.

Il più cattivo dei cattivi, quello che ordinò a Brusca di sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo per punire il padre che collaborava con la giustizia. Il boss più sanguinario di Cosa nostra, lo stratega della guerra di mafia degli anni Ottanta quando a Palermo le strade erano rosso sangue con le sagome dei cadaveri coperti dai lenzuoli, dell’attacco allo Stato con gli omicidi di magistrati, poliziotti, carabinieri, politici.

Il padrino delle stragi col tritolo a Capaci, dove fu fatto saltare in aria Giovanni Falcone, e in via d’Amelio dove fu assassinato Paolo Borsellino.

 

strage-capaci

 

E quelle a Milano, Roma e Firenze nel ’93. L’ideatore del fallito attentato allo stadio Olimpico.

«È morto portandosi dietro molti segreti», dice Piero Grasso, giudice a latere nel maxi processo al quale lavorarono Falcone e Borsellino che portò alla sbarra il gotha di Cosa nostra e che scatenò la violenta reazione dei ‘corleonesi’. «Era un mostro spietato che ha causato morti e tanto dolore: con la violenza è riuscito a conquistare il vertice di Cosa Nostra e con questa strategia cercava di condizionare le Istituzioni e ottenere dei vantaggi», ricorda Grasso.

Durò solo una settimana la sensazione che Riina potesse rispondere alle domande dei pm al processo sulla trattativa Stato-mafia, quella che secondo la Procura di Palermo sarebbe stata agevolata da don Vito Ciancimino per il tramite dei Ros con lo scopo di mettere fine alle stragi, con quel «papello», le richieste del capo della Cupola, su cui rimane il mistero.

Per raggiungere il vertice mafioso, Toto u curtu s’era fatto largo scatenando conflitti, ordinando omicidi, sfidando lo Stato, eliminando uomini e simboli del potere democratico.

Per più di vent’anni il suo mito è stato quello di un boss misterioso e inafferrabile, che ha diviso il suo destino criminale con Provenzano. Stessa piazza d’origine, Corleone, stessa cosca. Cresciuti all’ombra di Luciano Liggio, la loro ascesa criminale era cominciata negli anni Sessanta.

Si era consolidata dopo la cattura di Liggio nel ‘74 ed era esplosa quattro anni dopo quando Riina aveva deposto Tano Badalamenti, boss di Cinisi e mandante dell’omicidio di Peppino Impastato, come capo della «commissione» di Cosa nostra.

Era il primo atto di una strategia che avrebbe poi imposto la «dittatura» corleonese con l’eliminazione della vecchia guardia mafiosa. A scandire la scalata fu la grande mattanza: oltre mille morti ammazzati e 300 lupare bianche tra il 1981 e il 1983.

Riina, Provenzano e Bagarella fecero fuori tutti gli avversari: da Stefano Bontade a Totuccio Inzerillo.

Sotto i colpi dei «corleonesi» furono assassinati parenti e familiari dei pentiti Totuccio Contorno, Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia. Tremenda fu la fine del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido, come ritorsione nei confronti del padre Santino, che stava collaborando.

Una «strategia del terrore», la definì Gaspare Mutolo: «Eravamo arrivati al punto che avevamo paura di parlare anche fra amici perché ci si guardava e si pensava: quello non c’è ma sente tutto». Per scalare il potere e controllare il traffico di droga e gli appalti, Riina aveva deciso di sfidare lo Stato. Ammazzando gli uomini delle istituzioni che per lui rappresentavano una minaccia.

Durante il suo regno cadde un’intera classe dirigente: Michele Reina, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Furono uccisi magistrati come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici. E ancora, investigatori come Boris Giuliano, Emanuele Basile, Mario D’Aleo, Ninni Cassarà, Giuseppe Montana, medici incorruttibili come Paolo Giaccone e giornalisti, come Mario Francese.

Accecato dal delirio di onnipotenza, Riina ricattava il potere politico per incassare l’impunità.

Per questo aveva lanciato un segnale ordinando l’eliminazione del procuratore generale Antonino Scopelliti: avrebbe dovuto sostenere in Cassazione l’accusa per il maxiprocesso. Il boss dei boss cercava in questo modo una strada per pilotare la sentenza.

E quando le condanne furono confermate in blocco, ordinò l’assassinio di Salvo Lima, l’uomo di Giulio Andreotti in Sicilia, dal quale si aspettava un intervento sui giudici. Poi organizzò il grande «botto» con le stragi di Capaci e via d’Amelio.

Totò ‘u curtu alzava il livello dello scontro per spaventare lo Stato e per aprire la strada a una «trattativa».

I paracadutisti del battaglione Tuscania e carabinieri del Ros nell'ultimo covo di Toto' Riina, in una immagine del 21 gennaio 1993. Foto Ansa - Nino Sgroi
I paracadutisti del battaglione Tuscania e carabinieri del Ros nell’ultimo covo di Toto’ Riina, in una immagine del 21 gennaio 1993. Foto Ansa – Nino Sgroi

 

Se abbia trovato interlocutori disposti a concedere benefici per fermare le stragi è da dimostrare. Il fatto certo è che nel momento più drammatico della sfida ogni protezione, cercata oppure incassata, è finita. Fu arrestato dalla Crimor dei Ros, guidata da Sergio Di Caprio, noto come capitano Ultimo, il 15 gennaio del ’93 a poche centinaia di metri dalla lussuosa villa in via Bernini a Palermo, diventata ora una caserma dei carabinieri, dove aveva trascorso con la sua famiglia la latitanza.

La strategia di Riina, costata lacrime e sangue, ha consumato il suo fallimento con l’immagine del padrino in posa dimessa in caserma sotto la foto del generale Dalla Chiesa. «Arrivai a Palermo il giorno stesso dell’arresto. E a questo ne seguirono altri: Brusca, Bagarella e via dicendo. Tutti questi arresti hanno rappresentato il riscatto del paese a questa minaccia di Cosa nostra che poteva essere micidiale per la nostra democrazia», commenta l’ex procuratore capo di Palermo, Giancarlo Caselli.

«Non gioisco per la sua morte, ma non posso perdonarlo», afferma Maria Falcone, sorella del giudice ucciso a Capaci.