Nella discussione, aperta sulle pagine del manifesto da un articolo di Maurizio Ferraris, si discute della sinistra e delle idee, in generale del rapporto intellettuali e politica.

I termini sono sintomatici dello stato critico del pensiero e della politica di sinistra.

La tesi di partenza di Ferraris è che la sinistra è in crisi perché ha in verità esaurito i suoi obiettivi, «la socializzazione del capitale industriale», raggiunti nel ‘900 dalle socialdemocrazie continentali. Di qui l’attuale difficoltà «a darsene di nuovi».

Questo difetto di scopo avrebbe poi liberato la maggioranza del voto popolare, che guarderebbe oggi sempre più alla destra o ai populisti.
Il paradosso del discorso di Ferraris a me pare doppio: non solo avendo raggiunto gli obiettivi abbiamo vinto e non lo sappiamo, ma viviamo già, a nostra insaputa, in una società comunista.

Il lavoro è finito, perché fanno (e sempre più faranno) tutto le macchine; non ci resta che «inventare», cioè liberare la fantasia e «consumare», visto che se le macchine creano e distribuiscono, solo gli umani possono consumare. Ma che cos’è questo se non il comunismo di Marx? Cioè la società in cui ognuno può fare indifferentemente il pittore, il pescatore o il critico della Ragion critica?

Al resto pensano le macchine, con un pugno di tecnici a controllarle.

Anche nel suo secondo intervento Ferraris ribadisce che il «lavoro umano non è più sinonimo di produzione». Ma è stato proprio il manifesto a ricordare tempo fa che in verità i robot creeranno 133 milioni di nuovi posti di lavoro, più del doppio di quelli nel frattempo distrutti (dati World Economic Forum).

E pure a breve, entro il 2022. Giammai potrà esserci sostituzione integrale del lavoro umano da parte delle macchine di ultima generazione.
La sinistra robotica ne tenga conto.

Certo il capitalismo ha i secoli contati, ma nel frattempo il problema resterà la distribuzione del reddito prodotto tra capitale e lavoro.
Nel paese di Bengodi (o Brave New World o comunismo) del consumismo sovrano si potrà ancora e sempre spendere solo la quota di salario che i lavoratori saranno riusciti a strappare, come quella di tasse sul capitale a sua volta strappata per il finanziamento del welfare.
Sentiremo ancora a lungo parlare di lotta di classe e di lotta politica.

Quella per «socializzare il plusvalore dei Big Data» è solo la versione più aggiornata di queste lotte. Tanto più che le statistiche ci dicono che negli ultimi 25 anni la produttività degli investimenti in infrastrutture telematiche di impresa (Ict) è stata in verità negativa. Fra 1995 e 2017 l’indice di produttività del capitale Ict è stato di -2,0% (nel solo 2016 -2,8%). Il «welfare digitale» può attendere. Roberta De Monticelli, sempre sul manifesto, risponde con sottile ironia.

Ricordando che gli obiettivi non sono proprio tutti raggiunti. Resta ancora qualcosa da fare. Forse l’attuale non è esattamente la società dei nostri sogni. Occorre ad esempio provare a contrastare la «devastazione dell’ambiente e della salute», trovare una politica per l’«integrazione dei migranti», combattere evasione fiscale, corruzione, mafie. C’è insomma ancora lavoro per la sinistra.

La stessa «socializzazione del plusvalore del capitale documediale» di cui parla Ferraris, non si concepirebbe nemmeno senza politica, organizzazione, general intellect, cioè partito. La critica del postmoderno deve ancora essere moderna.
Di De Monticelli è semmai opinabile la fiducia nell’Illuminismo e la revoca in un’unica critica degli «eredi di Hegel e Marx» e della destra di Heidegger e Schmitt.

Credo invece che Marx e Gramsci siano ancora utili nella prospettiva di un pensiero critico e capace di immaginare un modello alternativo di politica, di produzione, di vita, di società. Ricostruire la sinistra in vista di un progetto di questo respiro e non di una scadenza elettorale sarebbe sì una causa per cui ancora spendersi.