La distruzione dell’edilizia sociale è un rito cruento che dà luogo, ogni volta che viene messo in atto, alla medesima contrapposizione tragica tra la rabbia dei suoi difensori e la gioia compulsiva dei suoi detrattori.

IN ITALIA RICORDIAMO le annose polemiche sull’abbattimento di una parte delle Vele di Secondigliano, una specie di autodafé che avrebbe dovuto magicamente liberare gli abitanti dalla miseria e dalla camorra attraverso la cancellazione di un’architettura considerata la causa del male sociale. Più di vent’anni prima negli Stati Uniti, nel 1972, avvenne la paradigmatica distruzione di Pruitt-Igoe – il complesso di case progettate dallo sfortunato Minoru Yamasaki, l’architetto delle Twin Towers – acclamata da Charles Jencks come l’evento che aveva segnato la morte definitiva dell’architettura moderna.

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IN QUELLO STESSO ANNO, a Londra, si concluse la costruzione di una delle massime icone del brutalismo, i Robin Hood Gardens di Alison e Peter Smithson, che adesso subiscono la stessa sorte. A nulla sono valsi gli appelli di architetti e abitanti in favore di una semplice manutenzione, il processo inesorabile della «rigenerazione urbana» ha fatto il suo corso: le persone sono state allontanate e al posto di un edificio pubblico progettato da due menti sopraffine, membri del Team X con Giancarlo de Carlo, per offrire la massima qualità abitativa a chi avrebbe dovuto usarlo, sarà costruito un complesso privato mediocre, per metà vincolato a offrire case «affordable».
Uno dei due progetti speciali della Biennale veneziana, «Robin Hood Gardens: a Ruin in Reverse», in collaborazione con il Victoria & Albert Museum e con la cura di Christopher Turner and Olivia Horsfall Turner, trasporta all’Arsenale, all’esterno del padiglione di Arti Applicate, un grosso pezzo della costruzione, salvato dalle ruspe e acquisito, non senza polemiche, dal V&A.

TRE PIANI DELLA FACCIATA originale sono stati riassemblati su una struttura progettata da Arup, che aveva ingegnerizzato il progetto originale, e da Liza Fior di muf architecture. All’interno del padiglione, invece, una mostra racconta la storia del progetto e dei 45 anni del sito con foto, documenti e video, insieme a un’installazione commissionata a Do Ho Suh sul tema.
È un’operazione grandiosa, che offre il piacere nostalgico di toccare e penetrare il frammento, la sacra reliquia di un progetto che, seppure polemico con il modernismo dogmatico del Ciam, era ancora intriso di quelle «buone intenzioni» derise e avversate nei decenni successivi dal postmoderno più reazionario. È un’occasione per riacquistare lucidità sulle politiche abitative, per rimettere in discussione quella particolare versione urbanistica del Tina (There Is No Alternative) che impone da anni il dominio assoluto del mercato sulle nostre città e sulle nostre vite. Le case popolari pubbliche sono sparite dai programmi di governo non perché fossero brutte o creassero ghetti, come ci è stato propagandato, ma perché nessuno ha più avuto interesse a contrastare il Real Estate e la rendita. L’alternativa, invece, esiste ancora.