In occasione del Torino Fringe Festival, l’Unione culturale Franco Antonicelli di Torino (via Cesare Battisti 4b) ospita fino al 19 maggio Portrait of Shirley, prima mostra in Italia dedicata alla cineasta indipendente americana Shirley Clarke (1919-1997). L’esibizione propone al pubblico un itinerario tra fotografie, home movies e cortometraggi della regista nonché i manifesti originali realizzati da Benedetta Bartolucci per l’edizione italiana dei suoi quattro lunghi: The Connection (1961), metafilm girato in un appartamento newyorkese che narra la realizzazione di un’opera dedicata al mondo della tossicodipendenza; Robert Frost: A Lover’s Quarrel with the World (1964), ritratto del poeta americano Robert Frost diretto insieme a Robert Hughes e vincitore dell’Oscar per il Miglior Documentario; Portrait of Jason (1967), pietra miliare del documentario-intervista, a cui il titolo dell’esposizione allude, e Ornette: Made in America (1985) sul grande jazzista Ornette Coleman.

La mostra è curata e realizzata dalla casa di distribuzione torinese Reading Bloom di Letizia Gatti, che ha intrapreso un importante lavoro di promozione dell’opera di Shirley Clarke in Italia con la collaborazione della statunitense Milestone Film, impegnata da alcuni anni nel restauro e digitalizzazione del patrimonio filmico dell’autrice (www.projectshirley.com). L’appuntamento si iscrive all’interno del Torino Fringe Festival, rassegna di arti performative che ogni maggio porta nella città sabauda un ampio calendario di produzioni teatrali indipendenti italiane e non solo (www.tofringe.it). La novità di quest’anno si chiama «Pellicola in scena», un programma cinematografico itinerante a cura di Clizia Centorrino che rende omaggio alla proiezione in pellicola come atto performativo, con suoni, gesti, riti propri, e alla libertà espressiva del cinema sperimentale di ieri e di oggi.

LA RASSEGNA ingloba la mostra e la arricchisce con la proiezione di The Connection prevista martedì 14 alle 21 in Unione culturale. Il film nacque come adattamento di una pièce teatrale di Jack Gelber prodotta dal Living Theatre e fece scandalo nei puritani Stati Uniti per la franchezza con cui raccontava la dipendenza dalle droghe facendo vedere, forse per la prima volta, la sequenza autentica di un «buco». L’omaggio che in tal modo il Fringe Festival rende al Living Theatre non potrebbe trovare collocazione migliore poiché la compagnia ebbe modo di esibirsi più volte in quegli «infernotti» del torinese Palazzo Carignano dove ancora oggi ha sede l’Unione; dallo scorso anno la sala espositiva dell’associazione che ora accoglie Portrait of Shirley ospita concerti di musica alternativa ed è stata ribattezzata «Living Room» anche in omaggio a Beck e Malina. E il cerchio si chiude.

NELL’ALLESTIMENTO curato da Reading Bloom e Studio Emmequadro, fotografie e materiali filmici a cavallo tra cinema privato e cinema sperimentale ripercorrono le tappe principali della vita personale e artistica di Clarke che, nata con il cognome Brimberg in un’elegante famiglia borghese, si formò come ballerina studiando con coreografe del calibro di Martha Graham, Hanya Holm e Doris Humphrey. Quando si sposò con il fotolitografo Bert Clarke, ricevette come regalo di nozze una cinepresa Bolex 16mm.

I due collaborarono alla realizzazione di alcuni dei primi lavori cinematografici di lei, come il cortometraggio d’esordio Dance in the Sun (1953), con il danzatore Daniel Nagrin che si muove sulle assi di un palcoscenico e su una spiaggia attraverso un montaggio alternato capace di evocare la compresenza di realtà, sogno e reminiscenza. L’autrice fece del dialogo tra cinema e danza una delle costanti della propria ricerca, testimoniata, tra i corti visibili a ciclo continuo nella mostra, dallo splendido Bullfight (1955), ode visiva all’orrore e al fascino della tauromachia, e da A Moment in Love (1957) con poetiche danze tra palazzi in rovina, entrambi coreografati da Anna Sokolow.

Alcuni fotogrammi di Skyscrapers (1959), splendido documentario di venti minuti sulla costruzione del grattacielo sito al 666 di Fifth Avenue di NY, ricordano quell’esperienza collettiva a cui partecipò, tra gli altri D. A. Pennebaker di cui sono in mostra anche due scatti che ritraggono Shirley e la figlia Wendy a New York nel 1959. La pellicola, musicata dal jazzista Teo Macero e sceneggiata da John White, con un testo ritmato come un rap, fu nominato all’Oscar per il miglior documentario corto.

NEGLI ANNI Sessanta, Clarke cambia radicalmente vita divorziando e ribellandosi alle norme di buona moglie e madre. Formatasi al cinema grazie alla pratica ma anche con maestri quali Hans Richter, diventa figura di punta del cinema underground sviluppatosi attorno all’esperienza della Filmmakers’ Co-Op che contribuì a creare con Jonas Mekas, anche se tra i due non corse sempre buon sangue.
Del 1969 è invece Lions Love di Agnès Varda, un’altra tra le collaborazioni davanti e dietro la macchina da presa che costellano tutta l’attività creativa di Shirley Clarke: la cineasta vi compare come attrice nelle vesti di una sorta di alter ego della collega francese e il film, quintessenza della scena hippie e del suo tramonto, con la warholiana Viva e i due autori di Hair legati da un intreccio amoroso, è ricordato in mostra da circa quattro minuti di backstage in cui per un momento compare anche, elegantissimo, Jacques Demy.

NEI PRIMI anni Settanta, Shirley iniziò a sperimentare con la video arte dando vita al pionieristico Tee Pee Video Space Troupe nel suo attico al Chelsea Hotel. Si trattava di un collettivo artistico il cui scopo era produrre arte dal dialogo tra pratiche diverse secondo un modello mutuato dall’improvvisazione jazz. Chiunque rendesse visita a Clarke e volesse dare un contributo al progetto, fornire un’occasione formativa o produrre arte insieme ad altri era benvenuto. Passarono in molti e molte da quell’esperienza: da Harry Smith e Paul Morrisey, a Milos Forman e Allen Ginsberg, da Nam June Paik a Ornette Coleman. Un’esperienza ancora tutta da indagare.