Mentre si sta per inaugurare al Museo Salvatore Ferragamo di Firenze la mostra «Italia a Hollywood, 1915-1927», in cui gioca un ruolo importante l’immagine di Rodolfo Valentino, esce un film di Nico Cirasola dedicato al ritorno a Castellaneta del divo italiano per eccellenza, a Hollywood.
La mostra fiorentina, dedicata all’influenze di artigianato, cultura e cinema italiani sulla California della nascente mecca del cinema, segue nell’arco temporale le orme di Salvatore, il «calzolaio delle dive», nel suo elegante «Hollywood Boot Shop», dove si accomodavano le grandi star, da Mary Pickford a Valentino, per l’appunto, amico del conterraneo, artigiano del lusso. I due sono un perfetto esempio di quella «emigrazione» italiana di successo in California, che ha contribuito in un modo che noi continuiamo a ignorare, alla sua crescita industriale, agricola e culturale.
Valentino è leggenda, mito, oltre che attore perfetto per il muto, un cinema fatto di sguardi e gesti dalla decodificazione universale (un abbraccio possessivo, un bacio appassionato) ma la sua vita professionale in realtà non è molto nota. Il suo viaggio in Italia è un momento chiave per comprendere le dinamiche dello star system ma anche le strategie di immagine del fascismo. Valentino infatti viaggia in Europa anche perché si sta ribellando allo studio system, alle sue strettoie contrattuali ed artistiche.
UNA STAR
L’attore non era partito da Castellaneta come un emigrante diseredato, ma da borghese in cerca di gloria e di avventura, come ha sottolineato suo fratello Alberto in un’intervista a Kevin Brownlow. A New York, impegnato in svariate quanto umili attività (dal giardiniere al taxi dancer, una sorta di gigolo) scrive sulla carta intestata del Waldorf Astoria per rassicurare la famiglia del proprio successo, incominciando a costruire il proprio mito. Scoperto dalla sceneggiatrice – produttrice June Mathis nel 1921 diventa una star con I quattro cavalieri dell’Apocalisse. Ma non sa che anche quando in America è diventato «l’amante che tutte le mogli americane sognano» in Italia i suoi film escono con grande ritardo e col contagocce. Non avviene solo per Valentino, ma per molti degli attori emigrati: i film in cui appaiono spesso non vengono distribuiti in patria, o non si sottolinea nella pubblicità che vi compaiono attori italiani. E questo non perché si cambino i nomi: Frank Puglia, Cesare Gravina, Tina Modotti passano dal teatro degli emigrati allo schermo coi loro cognomi che finiscono in vocale. Quanto a Valentino, dovette cambiare il suo, Guglielmi, impronunciabile per gli americani, e scelse di utilizzare una parte del proprio nome araldico, «di Valentina d’Antonguella», che suggeriva un’origine aristocratica in grado di esercitare un fascino speciale per il pubblico americano. Allo stesso tempo però questa scelta lo esponeva alle critiche generate dal pregiudizio WASP contro l’aristocrazia europea, vista come parassita, dedita all’arte e non al lavoro produttivo. Il pregiudizio anti-italiano emerge anche nel casting: interpretò solo un ruolo di italiano, in un film minore, Cobra. Negli altri film era russo, francese spagnolo e soprattutto arabo, in The Sheik (George Melford, 1921) che lo incoronò come il dominatore della fantasia erotica femminile. Intervistato sul suo ruolo di arabo, difese questa cultura, mettendola in relazione con le sue origini meridionali – un’affermazione coraggiosa nel momento in cui montava in USA l’onda anti – emigrazionista e si imponevano quote restrittive all’emigrazione italiana.
IN ITALIA
Nell’estate del 1923 l’attore era ritornato in Italia, «scoprendo che laddove in Inghilterra e Francia lo avevano accolto come una celebrità, nell’Italia (appena diventata) fascista, i suoi film erano pressoché sconosciuti.» Infatti I quattro cavalieri, del 1921, fu distribuito nel 1923 e Lo sceicco nel 1924; alcuni titoli apparvero solo dopo la sua morte, che avvenne nel 1926. Come mai? Il risentimento verso Valentino era sintomatico dell’atteggiamento della borghesia italiana verso gli emigrati, ma il regime avrebbe potuto appropriarsi facilmente della figura di Valentino come simbolo dell’affermazione della cultura italiana all’estero. Ma si sa che l’unica star del fascismo era –e doveva essere- il Duce, che in effetti non concesse neppure udienza al divo, quando questi era in Italia, da un lato geloso della sua fama ma dall’altro infastidito dall’ideale maschile che questi rappresentava. Valentino a torso nudo coi suoi muscoli da bronzo di Riace e la grazia di una scultura classica, Mussolini contadino che miete il grano con la struttura massiccia, che richiama piuttosto quella del suo alter ego filmico, Maciste, lo scaricatore di porto Bartolomeo Pagano.
Quando poi l’attore chiese la cittadinanza americana, il pubblico italiano, sobillato dal regime, era pronto a boicottarlo, ma poco dopo egli morì di una stupida peritonite, e si trasformò, anche in Italia, un mito immortale, santificato dal regime stesso.
Nazionalismo e fascismo spiegano quindi il mistero, che tanto ferì Valentino al suo ritorno in patria, vedendosi ignorato e trascurato come i poveri emigranti che avevano condiviso con lui l’esperienza amara di essere oggetto di pregiudizio antitaliano in US e cancellati come simbolo imbarazzante del fallimento delle politiche economiche dei governi italiani postunitari, che raggiunsero il pareggio del bilancio solo grazie alle rimesse degli emigrati.