Riek Machar è tornato. Da ieri il principale antagonista del presidente sud-sudanese Salva Kiir si trova nella capitale Juba per dar seguito agli accordi di pace faticosamente siglati in Etiopia nell’agosto 2015 e da allora rimasti in sospeso. Dopo due anni e mezzo di guerra civile – la prima nel paese più giovane del mondo, nato con la benedizione della comunità internazionale dalla scissione con il Sudan -, dopo decine di migliaia di morti e oltre due milioni di profughi (raccapriccianti dettagli sono elencati nel rapporto che l’Alto commissariato Onu per i diritti dell’uomo ha diffuso lo scorso marzo), la nomina a vicepresidente di Machar dovrebbe mettere in scena una ritrovata normalità. E soprattutto sbloccare lo stallo per la formazione di un nuovo governo di unità nazionale, uno step essenziale per poter avere accesso agli aiuti internazionali, sempre più cruciali allorché l’economia è al collasso e la carestia alle porte.

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Profughi del conflitto civile sud-sudanese (Reuters)

 

Si torna al punto di partenza, dal momento che, sempre con Salva Kiir al timone del paese, Riek Machar vicepresidente lo è già stato. Fu proprio il suo siluramento nel luglio del 2013 – lo accusavano di preparare un golpe – a innescare la grave crisi politica che pochi mesi dopo sarebbe degenerata in conflitto armato. A quel punto, mentre i suoi miliziani cercavano di sottrarre al controllo dell’esercito regolare quanti più territori fosse possibile, Machar trovava salvezza in Etiopia. Un esilio il suo che che solo ieri si è deciso a interrompere, spinto in primo luogo dalle pressioni internazionali. Ovvero la crescente irritazione da parte dell’Onu, dei paesi donatori – Usa in testa – e dell’Unione africana, garante dell’accordo firmato in agosto. Sul tema Sud Sudan ieri era in programma anche una riunione del Consiglio di sicurezza. Un ulteriore monito indirizzato ai riottosi firmatari. .
Machar sarebbe dovuto rientrare già il 18 aprile e l’ennesimo ritardo è stato attribuito alla difficoltà di reperire gli aerei necessari al trasporto dei suoi uomini, ma anche al prolungarsi della trattativa su quali e quante armi questi potessero portare con loro.

Al contrario, risulta difficile non ipotizzare una relazione con i gravissimi fatti accaduti il 15 aprile nella regione frontaliera di Gambella, in territorio etiopico, la stessa in cui si trovava Machar con il suo entourage in attesa del rientro in Sud Sudan. Quel giorno miliziani provenienti dal Sud Sudan, organizzati e armati fino ai denti, avrebbero attaccato diversi villaggi Nuer – l’etnia minoritaria del Sud Sudan, legata a Machar – uccidendo circa duecento civili e sequestrando un centinaio tra donne e bambini. Nella zona è forte la presenza dei profughi Nuer fuggiti proprio dal conflitto sud-sudanese. Unendo a questo la razzia di 2 mila capi di bestiame, si ha lo scenario tipico della faida inter-etniche, che chiama in causa nella fattispecie i Murle. Tuttavia alcuni elementi sembrano non tornare, a cominciare dalla presenza riportata da alcuni testimoni di miliziani Dinka, l’etnia maggioritaria legata al presidente Salva Kiir, che non si può dire abbiano mai legato con i Murle. Questi ultimi inoltre avevano raggiunto da poco un accordo di non belligeranza con Machar. Insomma un intrigo spaventoso. Di certo c’è che l’Etiopia non l’ha presa bene, si sono alzati gli elicotteri, localizzati e uccisi almeno una cinquantina di assalitori, l’operazione per salvare i rapiti è in corso su entrambi i lati del confine e le conseguenze nei rapporti tra Juba e Addis Abeba non tarderanno a farsi sentire.

Il ritorno ieri di Riek Machar era stato preceduto il giorno prima da quello della sua “guardia personale” composta da circa 200 uomini, guidata dal capo di stato maggiore della ribellione Simon Gatwech Dual. Ad accoglierlo il capo della guardia presidenziale Marial Chanuong Yol Mangok. Su fronti opposti si sono entrambi guadagnati un embargo internazionale sulle forniture di armi che fa abbastanza sorridere. Ora si attende la stretta di mano tra Machar e Kiir, da cui verrà fuori almeno uno scatto buono per aggiornare e irrobustire l’iconografia di questo fragile accordo. Per ora i manifesti nelle strade di Juba ricorrono al fotomontaggio per unire le immagini dei due leader sotto la scritta «Riconciliare, unire la Nazione». Si capirà presto se c’è della sostanza o se è solo un nuovo capitolo della stessa tragica farsa.