Damien Hirst è tornato. Dopo l’ultima contestatissima mostra No Love Lost, The Blue Paintings, alla Wallace Collection di Londra del 2010, il bad boy inglese (Bristol 1965) ha forgiato per Venezia la fantasmagorica mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable, che si sdoppia tra Punta della Dogana e Palazzo Grassi, a cura da Elena Geuna (fino al 3 dicembre).

ACCOLTA DAGLI ANIMALISTI, durante i giorni dell’allestimento, con quaranta chilogrammi di sterco lasciato immotivatamente davanti a Palazzo Grassi, la rassegna è destinata a suscitare le solite sterili diatribe. L’elefantiaca e onerosa operazione costruita dall’artista si inserisce in una logica dell’evento che, certo, non mancherà di strascichi polemici e che si biforcherà (come da copione) in assoluti consensi e perenni indignazioni, ma che ne affermerà comunque il suo paradigma.

COSA HA MAI INVERATO questa volta l’artista contemporaneo più famoso (per cui il più amato e/odiato) del mondo? Treasures from the Wreck of the Unbelievable è il racconto ipertrofico del rinvenimento, a largo della costa africana, del leggendario tesoro (risalente al I secolo d.C.) appartenuto al liberto di Antiochia, Aulus Calidius Amotan (conosciuto come Cif Amotan II) e disperso a seguito del naufragio del vascello Unbelievable che lo trasportava. Palazzo Grassi e Punta della Dogana diventano i colossali custodi dell’enorme tesoro, raccontato attraverso duecentocinquanta nuove – e controverse – opere.

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L’INCIPIT ALLUDE alla fase del suo ritrovamento, attraverso un video che mostra il recupero dei reperti archeologici e l’esposizione è disseminata di light box che ne fissano la suggestione delle fasi.
Si sviluppa, poi, attraverso la mole delle dimensioni dei reperti (il solo Demon of Bowl di bronzo, carambolato nella hall di palazzo Grassi, misura 18 metri di altezza) e l’alternanza di statue e oggetti, teche e antichi disegni (oltre alla ricostruzione, in miniatura, del vascello Unbelievable), che evidenziano lo stato degli oggetti pre-restauro e quello successivo alla pulitura.
I cinquemila metri espositivi sono completamente assorbiti dalla vastità della collezione ritrovata e che si dilata, enfaticamente, tra statuaria e miniatura, combinando aree differenti (da quella romana all’egizia). I cimeli, che tendono a insinuare fantastiche memorie, si distendono in una lunga carrellata di teste di meduse (in cristallo e bronzo dipinto), enormi conchiglie di bronzo, grandi gruppi scultorei che rappresentano una zoologia fantastica, composta da cerberi, leoni e serpenti, orride lucertole e tentacolari idre, cavalli alati, tartarughe marine, scimmie, granchi, scarabei, gatti ed elefanti cesellati in oro. Poi scivola in figure mitologiche: teste di ciclopi, sfingi e sirene.

I PEZZI DELLA COLLEZIONE vengono esposti, spesso, ancora incrostati dai residui calcarei, da spugne e coralli, sedimentati da muffe e conchiglie in colorazioni stridenti e roboanti. Ma nel percorso espositivo i dubbi smantellano pian piano le certezze. C’è qualcosa che «disturba» il visitatore più accorto e che viene suggerito dalle discrepanze cronologiche dei reperti e dalle impertinenze iconiche che, per nulla celate, si rivelano nella loro realtà alla memoria visiva. Le intrusioni e i rimandi iconografici – alcuni smaccatamente ostentati – si succedono via via, smontando l’ordito hirstiano.
Le due mostre, infatti, si srotolano tra corpi femminili deposti su letti di marmo di Carrara (Dead Woman) che strizzano l’occhio alla deposta Ilaria del Carretto, gruppi marmorei (The Minotaur), che rimandano platealmente al Made in Heaven di Jeff Koons, candidi marmi bianchi (Sphinx, Tadukheba) che ammiccano a Marc Queen, avvenenti nudi femminili (Hermaphrodite) vicini a Kiki Smith, robot impossibili (Quetzalcoatl), posture (Pair of Slaves Bound) che riecheggiano i Prigioni di Michelangelo, i personaggi di Walt Disney (Mickey e Goofy), busti di bronzo (Five Antique Torsos) che somigliano a quelli surrealisti e, non ultimo, il marcato indizio trasmesso dal busto di bronzo del collezionista, ricoperto da spore e coralli, che rammenta incredibilmente la fisionomia di Damien Hirst stesso (Bust of Collector).

Tra argenti, ori, bronzi, graniti, marmi pregiatissimi e cristalli il bluff confezionato da Damien Hirst si svela magicamente e allo spaesato spettatore non rimane che aggirarsi nel grande Lunapark del fake.
Hirst congegna un meccanismo talmente beffardo e accidioso che si serve cinicamente dello spettatore poiché è il visitatore stesso che diventa il garante inconsapevole della simulazione creata dall’artista. Naviga incauto nella scenografica avventura predisposta dall’autore che è alimentata dalla spettacolarità delle saghe cinematografiche e delle mega-produzioni televisive. Cerca nello stupefacente la strategia di sovvertire la percezione e lo trasforma in un monumentalismo esorbitante, in una gravosa materialità e in un colorismo eccentrico. In quanto alla semantica utilizzata, provocatoria o compiacente che sia, mantiene una sua continuità che non induce, di primo acchitto, a sospetti.

IL GIGANTESCO Demon of Bowl che, sornionamente, allude alla statuaria greca dei Bronzi di Riace e ne esaspera l‘imponenza, non fa che inseguire le volumetrie dei suoi Hymn (1999) alti 23 metri, Charity (2002) di 27 metri, The Virgin Mother (2005) di 10 mt, Saint Bortolomew (2006) di 25 mt, fino all’ultima scultura pubblica realizzata in bronzo, Verify, 20 metri, regalata alla città di Davon nel 2013.
Così come la compatezza delle teche, contenenti i falsi reperti del «tesoro», ripetono la stessa minimale ossatura degli «Instrument cabinets» degli anni Novanta e Duemila dai sonanti titoli: The Sleep of Reason, Where Are We Going?; Where Do We Come From? Is There a Reason?; Isolation; Night of the Long Knives.
L’ossessione della catalogazione di A faboulous collection of precious jewellery from the Wreck of the Unbelievable, di A collection of natural gold ore formed semi-precious stones salvaged from the Wreck of the Unbelievable ha la medesima cura classificatrice che reitera nei famosi «Medicine Cabinets», «Trinity Cabinets» o negli «Entomology Cabinets». E, l’orso bizzarro che compone l’enorme gruppo statuario The Warrior and the Bear rilancia il suo stesso bellissimo lavoro Last Night I Dreamt I Didn’t Have a Head del 1997, oltre all’ineffabile citazione del Bear and Policeman di Koons.
Treasures from the Wreck of the Unbelievable è un’assoluta invezione narrativa dell’artista inglese, interamente autoprodotta, che riprende e eccede le sue forme, ma che ne trasgredisce la finalità.

L’ERA DI ROTTURA semantica e di sovvertimento concettuale è svanita, una volta scemato il contesto culturale fibrillante nel quale si era avvitata. Permangono però intatti i suoi ineguagliabili lavori, da The Phisycal Impossibility of Death in the Mind of Someone Living all’universo degli Spot passando per tutto il suo orizzonte immaginifico. Hirst non è, e non è mai stato, un artista comune, introflesso nelle proprie certezze e congelato nei secoli dei secoli. La sua indole lo spinge a una continua messa in gioco: la sua è una rischiosa sfida con l’art system, di cui finora ha controllato perfettamente mercato e collezionismo.

QUESTA FARAONICA epopea veneziana, costellata da imponenti lavori, imbarazzanti per la loro sostanziale ampollosità, servirà a scoprirne l’obiettivo principale. Sarà il suo ennesimo smottamento di mercato, un trampolino di rilancio, un’ambizione dell’assoluto o, più semplicemente, un capovolgimento di attitudine iniziata sette anni fa con No Love Lost, The Blue Paintings?
Parafrasando Gertrude Stein, «Hirst è Hirst è Hirst», Duole ammetterlo ma l’inganno ideativo di Treasures from the Wreck of the Unbelievable di per sé brillante e congeniale alla sua natura beffarda, si scontra con lo scarto concettuale dell’operazione.
Nella sua attuale narrativa Hirst sembra cedere o adeguarsi a una fruizione collettiva oramai collassata nel semplicistico senso delle cose, nel godimento futile dell’evento spettacolare, nella banalità del significato e nel sempre più imperante trionfo della superficialità dell’informazione.

È proprio questo il «danno» che si potrebbe trovare in una esposizione così carica di aspettative e di scarti. Non è di facile metabolizzazione, ma la rassegna in Laguna è, in fondo, un congegno kitsch e mirabolante, per catturare una nuova e differita fruizione, masse trans-generazionali di visitatori e legioni di turisti disavveduti, all’interno di uno spazio nobile come il museo. Il popolo del selfie è accontentato.