Chissà se Lew Wallace, autore del romanzo Ben-Hur. A Tale of the Christ, avrebbe un giorno immaginato un adattamento così poco cristologico del suo libro. Timur Bekmambetov riduce al minimo sindacale la presenza di Gesù Cristo, limitandosi a un «volemose bene» ecumenico che ha il sapore di un contentino concesso un po’ obtorto collo a un pubblico che probabilmente immagina ancora Charlton Heston a passeggio per la Palestina.

Bekmambetov, a suo modo stimato anche da Roger Corman (se n’è parlato a Locarno), nonostante una lavorazione a dir poco complessa, da stakanovista , firma un film discutibile, probabilmente il meno convincente di una filmografia curiosa, dichiaratamente «coatta», ma animata, a tratti, da barlumi di autentica follia (la saga dei Guardiani della notte, un Abramo Lincoln in veste di cacciatore di vampiri).

Regista e produttore che non si fa mancare niente, responsabile anche del tremendo Hardcore, a contatto con un materiale dichiaratamente aulico come la vicenda Giuda Ben-Hur fa un po’ la figura dei cinematografari delle origini che pensando di dovere nobilitare il proprio lavoro andavano a compulsare la Bibbia in cerca di storie esemplari da servire al pubblico.

Per fortuna, il suo cattivo gusto un po’ trash e un po’ kitsch salva Bekmambetov dal centone agiografico permettendogli di stringare la vicenda di Giuda e Messala al massimo.
Via anche il sottotesto gay che Gore Vidal aveva iniettato nell’originale all’insaputa (o quasi) di William Wyler e dentro il 3D. Ciò che resta sono dei set piece di grande efficacia. Animato da una hybris che lo spinge a superare le soglie del visibile e dello spettacolo, Bekmambetov dà vita a una battaglia navale vista dal ventre di una galea dove gli schiavi sono incatenati ai remi.

Montaggio frenetico, soggettive impossibili, sangue e schianti impressionanti. E c’è pure il «messaggio»: la guerra la perdono sempre gli ultimi.
E tutto questo prima ancora della corsa delle bighe che è annunciata immediatamente, all’inizio del film, a mo’ di rassicurazione. Tra gli aspetti più buffi, almeno in originale, un Morgan Freeman che recitando il ruolo del saggio allevatore di cavalli del deserto con un certo aplomb autoironico, infiocchetta il tutto con sguardi e espressioni a metà strada fra Yoda e saggezza street.

Come dire che al confronto Mel Gibson ci fa la figura del pio biblista. La corsa delle bighe, invece, non delude. Un piccolo tour de force che occupa quasi tutta la parte finale del film. Ovviamente vedendo Ben-Hur non si può non pensare ai Monty Python, al loro tormentone «Che cosa hanno fatto i romani per noi?», considerato che oggi in Palestina i perseguitati di ieri sono diventati gli aguzzini di oggi.
Con il suo non stile monumentale ed eccessivo, Bekmambetov ottiene dunque, se non altro, il risultato di firmare un «brutto» film sì, ma divertente e scemo quanto basta.