Akira è ora. Non solo perché Akira torna al cinema per la celebrazione dei suoi 25 anni, in una versione restaurata che occuperà le sale per un giorno soltanto, domani 29 maggio (41 cinema del circuito UCI, e da ieri anche in tv su Cubovision, in HD per sei mesi). Solo ventiquattro ore per esplodere, implodere e lasciare nell’etere metafisico dell’immaginario le sue scorie radioattive; il tempo effimero della rotazione del pianeta Terra attorno al suo asse per fare piovere in un fallout di carta e numeri la pioggia contaminata di una bomba atomica del fumetto e del cinema. Akira è ora perché il suo tempo è adesso.

Un quarto di secolo fa fu un’opera anticipatrice come tanta fantascienza ma, rivisto , è una fantasia sull’adesso, o meglio, una sua variazione in cui si intravede , mascherato dall’artificio dell’invenzione fantastica, il tempo presente, così che si intuisce che negli anni ’80 del secolo scorso Akira fu pensato per essere “dopo”.

. Trasformò il mito mediatico negativo di una next generation pre-digitale, ribelle e mutante in un’epopea tragica e lucente, un’Eneide per otaku e indignati. Ma per i giovani che vivono nel secondo decennio del 2000 Akira dovrebbe essere un manifesto, perché è violentemente contemporaneo. Vi cogliamo l’oggi attraverso i dissidi che squassano le strade, l’alterazione chimica e anfetaminica, l’ipercinetica di corse notturne verso il nulla di un’alba disoccupata e fasulla, il disagio e la disperazione, il controllo e il dominio sulla massa del triumvirato polizia-esercito-commercio. I nostri occhi nuotano nei colori elettronici che sono gli stessi che vediamo in rete, quando ci informiamo sul nostro presente con il computer o il telefono.

[do action=”citazione”]L’importanza di Akira nella formazione di una generazione fu la stessa che ebbero Star Wars o Final Fantasy VII, determinò i gusti senza influenzarli ma captando un presente occulto all’informazione di massa, assecondando e cantando la vita, le pulsioni e le passioni di milioni di persone[/do]

Neo Tokyo, 2029. La metropoli ricresce attorno al cratere della sua rovina seguita alla terza guerra mondiale e Otomo tratteggia la città con la perizia estetica e urbanistica di un regista-architetto tra Akira Kurosawa e Michael Mann. Due bande di motociclisti poco più che adolescenti si inseguono per le strade, luci e neon si confondono in una sfilata frenetica di scie vettoriali, lampi meccanici e rombi fulminanti di super motori. Conosciamo subito Kaneda e Tetsuo, i due amici destinati all’antagonismo definitivo che sono i personaggi principali del film. Akira, colui che da il nome all’opera, nella pellicola non lo conosciamo e lo vediamo solo per una manciata di secondi, un oltre-bambino triste dai poteri divini. Bisogna leggere le centinaia di pagine del fumetto per incontrarlo di «persona». La sintesi operata da Otomo per trasformare il suo manga in un film è simile a quella fatta da Miyazaki con Nausicaa poiché entrambe le trasposizioni cinematografiche degli immensi fumetti da cui sono tratte sono solo splendide allusioni a qualcosa di più grande e complesso, impossibile da trasformare in due ore di pellicola.

Akira è la storia di Kaneda e Tetsuo, soprattutto di Tetsuo, uno sventurato messia suo malgrado, un ragazzo divorato dai poteri devastanti, che acquisisce senza avere la volontà e la forza di dominarli. Sarebbe un’impresa impossibile quanto grottesca, come riassumere in dieci righe il Decameron senza tralasciare nessuna delle novelle, quella di tentare di raccontare l’intreccio di Akira. Lo stesso Otomo fallisce consapevolmente nel restituire al cinema tutta la complessità del suo manga, regalandoci un film contorto e magnifico, dove è facile confondersi in una faticosa coralità. Eppure è proprio il suo alfabeto indecifrabile a sublimare Akira in un’astrazione che va oltre il fumetto, rendendolo amabile anche da chi rischia di smarrirsi tra gli innumerevoli rami della sua selva narrativa.

Akira il film si ricorda per le vie rabbiose di Neo Tokyo con i suoi sciocchi ologrammi pubblicitari e i vicoli affollati dai miserabili; per le stanze-prigione vaste come aule principesche dentro cui soggiornano bambini dal viso già anziano; per le manifestazioni popolari spente nel sangue da soldati senza volto; per la carne che diventa un altro elemento e che muta divina, mostruosa e disperata; per il volto tumefatto, simbolo di ogni orrore, della povera Kaori; per le aure che si illuminano e danzano come onde in un pentolone virtuale; per le labbra belle e aspre di Kei il cui volto è quasi celato da un casco.

Meraviglia dell’infravisione che consacrò definitivamente la cultura pop e (cyber)punk giapponese, Akira amplifica la sua potenza e rinnova la labirintica vastità se rivisto e riletto, perché ogni volta sembra di navigare con più coscienza nei suoi spazi. Poi, quando potremmo pensare di avere rilevato la misura dei suoi confini o di avere razionalizzato la sua geografia, ecco che torna a sfuggire qualcosa, perché Akira sarà sempre un enigma.
Le grandi storie sono universi in movimento, non stagnano inerti nella loro immobilità di significato, ma si muovono e cambiano con il tempo. Come tutte le grandi storie, Akira vive.