Ma «gli angeli invecchiano?» si interrogava retoricamente Wim Wenders, titolando un bel testo di accompagnamento al Cielo sopra Berlino (1987), ripresentato alla passata Berlinale 2018 in versione restaurata 4k e adesso in procinto di ritornare nelle sale italiane, come evento, per un paio di giorni. Ovviamente la risposta è no dato l’essenza eterea e atemporale della loro natura di esseri celesti, com’è spesso atemporale la poesia, l’asse portante dell’ispirazioni di quello che resta a trent’anni di distanza un grande classico del cinema moderno del secolo passato.
A suo tempo il film era nato da un’esigenza pratica e prosaica: produrre un’opera, dopo i fortunati Paris, Texas (1984) e il doc giapponese Tôkyô-ga (1985), nel più breve tempo possibile per poter tenere in vita la casa di produzione del regista. E ciò in un fase – adesso ci è chiaro retrospettivamente – in cui aveva raggiunto lo zenit della sua parabola creativa ed era diventato l’autore più imitato internazionalmente.

Quando Wenders inizia a lavorare al film, non c’era una storia, ma solo brevi abbozzi e suggestioni, insieme alla segreta voglia di far sì che fossero i bambini e, poi gli angeli, i protagonisti del racconto. Conseguentemente non esisteva neanche una sceneggiatura bensì una vaga promessa dell’amico Peter Handke, oggi premio Nobel per la letteratura, con il quale all’inizio della sua carriera Wenders aveva più volte collaborato, di scrivere qualche scena e dei dialoghi da usare in estrema libertà. Come la litania infantile nelle prime battute del film, recitata dall’angelo protagonista Damiel alias Bruno Ganz.

Esisteva dunque solo l’idea che sarà poi espressa apertamente nel film dalla figura dell’attore Peter Falk nella parte di se stesso, anche lui in realtà un angelo «spretato», che le cose si andranno scoprendo girando. L’unica certezza era la location: Berlino, una città divisa e di frontiera alle soglie di un imminente cambiamento epocale, quello della caduta del Muro, che il film in qualche maniera presagisce, ma che restava ancorata a tradizioni, modi di essere, devastazioni e rovine della Germania pre e postbellica.

Paradossalmente è proprio il clima di incertezza, la mancanza di veri punti fermi, ad eccezione delle poche scene scritte da Handke, a determinare la straordinaria ariosità e poesia del capolavoro wendersiano. A dire il vero, non era la prima volta che il regista tedesco lavorava di improvvisazione, senza il paracadute di una sceneggiatura ben definita: già Nel corso del tempo (1976), la splendida conclusione della trilogia di viaggio realizzata negli anni Settanta, era nato nella stessa maniera.

Svincolato dai canoni di una narrazione tradizionale, Wenders può allora dare sfogo alla sua creatività, permettendosi delle grandi libertà sintattiche e abbandonandosi al puro piacere del cosiddetto «cinema dello sguardo», una delle grandi bandiere dell’autorialità cinematografica dell’epoca. Così Il Cielo sopra Berlino si formava man mano che le riprese avanzavano (e da ciò la scelta obbligata di girare in sequenza temporale come era avvenuto per Nel corso del tempo), e i personaggi e le situazioni prendono corpo direttamente nella location che le ospita, quasi ne fossero una diretta emanazione, come avviene con la figura del vecchio Homer. Di rado accade al cinema che la storia nasca e respiri direttamente nei luoghi dell’intreccio al punto di dare la sensazione che il film sia una moderna sinfonia urbana di intensa portata poetica, così come lo era stata al tempo della Repubblica di Weimar Berlino. Die Sinfonie der Großstadt (1927) di Walther Ruttmann.

Come per ogni sinfonia che si rispetti, anche per il film di Wenders quello che conta, è la dimensione polifonica, la capacità, di far sì che i vari elementi della struttura del racconto si sovrappongano liberamente in una serie di incastri al tempo stesso rigorosi e necessari ma naturali. L’idea di partenza dell’intero edificio è ovviamente molto semplice, quasi banale: un colpo di fulmine tra una donna ed un angelo che per amore accetta di rinunciare all’immortalità per farsi uomo e scendere sulla terra.

Ma qual è la Berlino che ci viene raccontata? Non una semplice cartolina illustrata bensì uno scenario umano, una perfetta tessitura di ambienti, di persone e del loro idioma. Sì proprio il tedesco, perché Wenders realizza questo film dopo otto anni di esilio volontario negli Stati Uniti e diversi film in inglese. Come affermerà in seguito è proprio oltreoceano che si è accorto «grazie alla lontananza, di essere un tedesco nell’anima e un europeo nella professione», una riscoperta della propria identità che coincide con il ritorno alla lingua materna. Da questo punto di vista, il film assume anche una dimensione personale, è il segno di una necessaria riappropriazione del proprio modo di essere uomo e persona. È, insomma, un desiderio di autoaffermazione insieme ad una tensione poetica ispirata a Rainer Maria Rilke oltre che guidata dai testi di Peter Handke.

E non c’è da stupirsi che gli elementi fondanti siano appunto gli straordinari movimenti della macchina da presa (del maestro Henri Alekan) dentro lo spazio di una città così tedesca come Berlino, e l’affollarsi di un coro di voci ciascuna intenta ad estrinsecare, attraverso la parola, la propria personalità, il proprio stare al mondo. Proprio perché, pur nell’aerea libertà di questo road movie metropolitano, non viene celata una dimensione fondamentalmente tragica: essa affonda le radici nella consapevolezza di un senso di vuoto e di colpa che attanagliava la coscienza della generazione di Wenders, la prima post-nazista nata a cavallo della guerra. È un vuoto che circonda tangibilmente i vari personaggi, dato da un doppio, complesso processo storico-psicologico: metabolizzare lo shock del II° conflitto mondiale, elaborare i crimini del nazismo, e insieme confrontarsi con la colonizzazione del modello americano (alla cui fascinazione lo stesso Wenders spesso non si era sottratto).

Solo lo sguardo dei bambini, gli unici davvero in grado di vedere gli angeli, sembra riuscire a lacerare la patina del dolore, rimanendo gli unici a potersi permettere di guardare direttamente in macchina, verso la soggettiva perenne degli angeli, mentre tutti gli altri personaggi devono conservare sguardi le cui direttive sono perse ai limiti delle inquadrature verso un altrove mai chiaro. Solo rimanendo un po’ bambini nel cuore, c’è la possibilità di superare il senso di angoscia di una propria perdita di individualità perché, come ci dice la già ricordata poesia iniziale di Handke, i bambini non hanno ancora imparato la differenza tra «io» e «te», solo per loro il mondo è un flusso unitario che non riesce ad ammettere reali confini tra sé e l’altro.

Ed è esattamente questo il dramma degli angeli, la loro impossibilità a definire con chiarezza la propria individualità perché il loro «io» sembra scomparire, è totalmente assorbito quando c’è un «altro» nei paraggi. Gli angeli sono essenzialmente occhi (il cui sguardo corrisponde a quello della macchina da presa) ed orecchie, ma gli manca la possibilità di parlare ai mortali. La loro posizione è, dunque, ambigua e il loro sguardo soggettivo finisce per aderire con quello delle persone che incontrano sul proprio cammino. Per gli angeli non può esistere un «prima» ed un «dopo», come per i bambini del resto. Perciò ogni piccola storia è ugualmente importante ed ugualmente futile. Tutta la prima parte del film (in bianco e nero) – prima che lo spettatore cominci ad interessarsi alle sorti di Damiel innamorato che brama tornare sulla terra – è dominata da un’immensa quantità di storie possibili, di destini spesso infelici per poi sparire nell’oscurità dell’oblio: una perfetta esemplificazione di come l’angelo può contemplare le nostre esistenze. Poi quando Damiel diventa uomo, il film passa al colore, a esemplificare visivamente il drammatico realismo dell’esistenza terrena. Film dello sguardo e sullo sguardo, Il cielo sopra Berlino è soprattutto un’opera sull’atto del narrare e sul significato di raccontare infinite storie – che sono poi sempre quella unica del bisogno di amore, di comprensione e di ascolto che ciascuno di noi si porta dentro.