Nel 1863, i frammenti di un’antica statua femminile rinvenuta presso il Santuario degli dèi Cabiri nell’isola di Samotracia – Egeo settentrionale – vengono imbarcati a Costantinopoli. Da lì transitano nei porti del Pireo e di Toulon e, dopo un lungo viaggio in treno, nel maggio 1864 giungono a Parigi. Inizia così l’avventura francese della celebre Nike di Samotracia. Con le grandi ali spiegate e le seducenti pieghe della tunica che la veste, la dea messaggera della vittoria è un capolavoro assoluto dell’arte ellenistica. Nel 2013 – a più di un secolo di distanza dalla sua scoperta da parte di Charles Champoiseau, l’allora viceconsole francese ad Adrianopoli (oggi Edirne, Turchia) – il direttore del Louvre, Jean-Luc Martinez, decide di lanciare una raccolta fondi on-line per il suo restauro. Piccole donazioni e aiuti generosi arrivano da ogni parte del mondo, accompagnati dai ricordi che legano i seimila settecento «mecenati» alla scultura.
Quasi fosse la Gioconda dell’archeologia, la Nike suscita una fascinazione popolare. Mentre la musa di Leonardo ipnotizza il pubblico attraverso la pienezza del suo enigmatico sorriso, lo charme della divinità greca è nell’assenza del volto. La terra restituì, infatti, tronco, busto e un’ala, ma non la testa. Nel 1875, l’architetto della missione austriaca impegnata negli scavi a Samotracia disegna alcuni blocchi di marmo grigio che Champoiseau aveva lasciato in situ e ne deduce che si tratta della base – in forma di prua di nave – della dea alata. La conferma di tale intuizione arriva dall’analisi di alcune monete datate al regno di Demetrio Poliorcete, sulle quali compare una Vittoria in piedi su un’imbarcazione. Nel 1879, anche i frammenti della prua e le lastre che ne costituivano lo zoccolo pervengono al museo parigino, dove si procede a un primo assemblaggio del monumento: alcune parti del corpo della figura femminile (ad esempio l’ala destra) vengono reintegrate in gesso mentre si sceglie di non rifare piedi, braccia e testa.
Per ricomporre il drappeggio – infranto in ben centodiciotto pezzi – il conservatore Adrien de Longpérier si rivolge all’italiano Enrico Pennelli, già noto per i minuziosi restauri della collezione d’arte del Marchese Campana. La statua (alta 2,75 metri) viene posata direttamente sulla base a forma di nave, i cui blocchi erano stati precedentemente uniti col cemento. Nel 1884 le operazioni possono dirsi concluse e la Nike conquista la sommità della scalinata Darou che fino all’inaugurazione della nota Piramide di vetro nel 1989, ha costituito il maestoso ingresso al Louvre. Una vera e propria «messa in scena», giocata sulla grandeur della composizione scultorea edello spazio architettonico che l’accoglie, il quale trasforma la dea «volante» in un idolo da venerare. Il «fanatismo», tuttavia, può avere conseguenze negative. I circa sette milioni di visitatori annui che si concentrano in massa attorno al «simulacro», provocano inevitabili effetti di degrado. Il cospicuo finanziamento ottenuto tramite il crowdfunding e le elargizioni della Nippon Television Holdings, la Fimalac e la Bank of America Merryll Lynch, hanno così dato il via a un restauro necessario e glamour. La Nike sarà riesposta a metà luglio in versione «sbiancata».
La patina leggermente marrone con la quale l’abbiamo ammirata finora non era, infatti, il colore originario del marmo di Paros in cui è eseguita, ma la reazione di un prodotto applicato sulla superficie nel XIX secolo. I lavori intrapresi dal settembre 2013 sotto l’egida di una commissione internazionale, hanno suscitato entusiasmo ed emozione negli studiosi coinvolti, i primi – dalla seconda guerra mondiale, quando l’opera venne imbragata e nascosta per salvarla da bombardamenti e saccheggi – ad avere il privilegio di osservarla da vicino. Tale prossimità ha consentito di eseguire un rilievo 3D, la ricostruzione «filologica» della nave blocco per blocco e l’aggiunta di frammenti conservati nei magazzini del Louvre o provenienti dai nuovi scavi greci e americani a Samotracia.
All’utilizzo dei raggi ultravioletti si deve invece la scoperta di tracce di colore sul corpo della dea: blu egizio sulle ali (forse per creare un effetto ombra), blu o viola sul bordo dello spesso mantello che declina sul fianco destro, svelando il nudo della gamba sinistra.L’analisi di una mano depositata al Louvre nel 1965 – il cui palmo è curiosamente proprietà dello stato greco mentre le dita appartengono al Kunsthistorisches Museum di Vienna – ha permesso, inoltre, di escludere che la «messaggera» brandisse una lunga tromba. Della Nike non si trascurano neppure i dettagli relativi al contesto archeologico in cui fu rinvenuta. Interpretata al principio come elemento di una fontana monumentale, l’assenza di tracce di deterioramento dovute a intemperie sul marmo, farebbe credere che la statua ex-voto o fu tempestivamente distrutta e poi interrata, o sopravvisse all’interno di una struttura coperta.
La sua datazione si colloca nella prima metà del II secolo a.C. ma non conosciamo il nome dello scultore. La base in forma di nave proviene certamente da un atelier di Rodi specializzato nella fabbricazione di trofei navali e non è escluso che anche la figura femminile fu realizzata nelle regioni del Dodecaneso o dell’Asia Minore. Il suo drappeggio parrebbe ispirato – oltre che alle sinuose forme delle dee che decorano il fregio del Partenone – alle virtuosità della Gigantomachia dell’Altare di Pergamo. Ma più che le ipotesi storiche, è il potere dell’immaginazione – l’unico che può davvero avvicinarci al mondo antico dandoci l’illusione di carpirne i misteri – ad aver decretato il successo di una opera d’arte mutila, convertendola in una vera e propria «icona». Persino Marinetti, nel Manifesto del Futurismo, ne fece il simbolo della classicità, da contrapporre però alla moderna bellezza di un’«automobile ruggente». Chissà che il rinnovato splendore della Nike non segni invece il ritorno all’«immobilità pensosa» del bello.