Era il 21 gennaio del 1998 quando l’allora presidente della Rai Enzo Siciliano, nominato insieme ad altri quattro componenti nel cda della Rai dall’Ulivo un anno e mezzo prima, rassegnava polemicamente le dimissioni inviando una lettera ai presidenti di Camera e Senato. Nella missiva puntualizzava la necessità che i partiti facessero «due passi indietro dalla Rai» e che la politica ne facesse a sua volta «molti, in Parlamento, verso la strada di una riforma complessiva dell’intero sistema televisivo pubblico e privato».

Dopo quasi vent’anni nulla è cambiato. Né alla Rai né nel sistema televisivo nazionale. I due passi indietro che lo scrittore invocava per i partiti non sono mai stati compiuti; nel Parlamento da anni non si ha notizia di una benché minima azione legislativa di sistema.

Dallo sfogo di Siciliano sono trascorsi quattro lustri: un lasso di tempo in cui il centrosinistra è stato al governo per nove anni. Ma alla Rai si è preferito acconciarsi alle pratiche di sempre, quelle che ne vedevano i formati iperpoliticizzati e la governance soggiogata al potente di turno. Quanti altri ne dovranno passare prima che l’azienda pubblica possa godere di uno status più autonomo, prima che qualcuno si prenda la briga di affrontare una riforma di sistema?

Oggi siamo all’ennesimo ritorno del sempre uguale. In questo senso Matteo Renzi ha fatto esattamente come gli altri. Non contano tanto le responsabilità di una presidente che siede anche al vertice della Trilateral o del direttore generale che comunque in due anni qualcosa ha provato ad innovare, con alterni risultati (meno nel campo dell’informazione, di più con altri programmi), conta piuttosto il fatto che l’azienda non si sia potuta liberare dall’abbraccio mortale della politica, quella politica che la dirige, nominando i suoi rappresentanti nel consiglio d’amministrazione, che ne occupa i programmi, anche quelli che non dovrebbe occupare, che ne condiziona e distorce la maggior parte dell’azione informativa come testimoniano mese per mese le tabelle dell’Agcom.

In questo il “nuovo” si è dimostrato perfettamente in linea con il “vecchio” che si pretendeva di rottamare.

Tanto da far venire alla mente la risposta di Gioacchino Rossini che a quel giovane compositore che lo infastidiva chiedendo un giudizio su una sua opera, disse: «C’è del bello e del nuovo nel suo lavoro, ma ciò che è nuovo non è bello e ciò che è bello non è nuovo». Appunto.