Con qualche minuto d’anticipo rispetto all’arrivo previsto per le sei di sera all’aeroporto di Ciampino, Salvatore Girone è atterrato su suolo italiano accompagnato dall’ambasciatore italiano in India Lorenzo Angeloni e dal generale Carmine Masiello, consigliere militare a palazzo Chigi.

Ad attenderlo, la moglie Vania e i figli Michele e Martina e il padre Michele, assieme al ministro degli esteri Paolo Gentiloni e alla ministra della difesa Roberta Pinotti, che ha abbracciato il fuciliere in divisa.

Contro ogni aspettativa, nessuna conferenza stampa, nessuna parola ai giornalisti, forse segno che alla gestione mediatica dell’evento con un occhio alla campagna elettorale, si è preferito evitare di aprire il fianco alle critiche. Mentre «gli indiani ci ridavano il nostro marò», il premier Matteo Renzi inaugurava un ponte elettromagnetico Terna a Favazzina, provincia di Reggio Calabria.

Niente one man show, solo una dichiarazione di «gioia per il ritorno di Girone», che ieri ha concluso un soggiorno forzato in India durato quattro anni e novantanove giorni, escluse le due licenze di Natale 2012 ed elezioni nazionali 2013.

Le pratiche burocratiche per il rilascio dell’exit visa necessaria per l’uscita dall’India sono terminate a tempo di record, permettendo a Girone un rientro in territorio italiano dopo solo due giorni dall’ok arrivato dalla Corte suprema indiana.
Alle indicazioni date un mese fa dalla Corte arbitrale dell’Aja era infatti necessario un passaggio giuridico dalla massima corte indiana, che non solo ha mantenuto la prerogativa dell’«ultima parola» sul caso, ma per effetto delle decisioni prese all’Aja continuerà a detenere l’autorità giuridica su entrambi i fucilieri, almeno fino all’esito dell’arbitrato previsto tra minimo un paio d’anni.

Potranno sembrare tecnicismi futili, ma per l’India vedere riconosciuta dalla Corte internazionale la propria autorità sui marò, anche se in territorio italiano, è misura dell’intervento dei giudici dell’Aja nel caso: all’India non è arrivato l’ordine di «riconsegnare il marò», ma l’invito a trovare una soluzione condivisa con la controparte italiana, vincolata a condizioni che avrebbe deciso la Corte suprema indiana. Etichetta dei rapporti legali internazionali per un collegio arbitrale assolutamente equidistante e garantista delle prerogative di entrambe le parti.

India e Italia, grazie all’intervento dell’Aja, sono riuscite a trovare un accordo all’insegna del buon senso. Di fronte ai tempi dilatati dell’arbitrato, imporre a Girone un soggiorno ancora prolungato in territorio indiano non aveva alcun senso, tanto che la posizione indiana – prima della decisione dell’Aja – già accondiscendeva alle richieste italiane: nessun problema a far tornare Girone, ma mettiamo per iscritto che se la giurisdizione alla fine è la nostra, entrambi i marò tornano qui in India.

Impegno firmato dallo stesso Girone e dall’ambasciatore italiano in India e che, si spera, avrà per Roma un grado di onorabilità maggiore del medesimo impegno che, nel marzo del 2013, firmò l’allora ambasciatore Daniele Mancini, assicurando il ritorno dei due fucilieri a New Delhi al termine della breve licenza elettorale. Parola ufficiale ribaltata clamorosamente dall’allora ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, che scatenando la reazione minacciosa della Corte indiana – pronta a fermare il nostro ambasciatore nel caso avesse deciso di uscire dall’India – ha costretto Roma a un dietrofront salvafaccia in extremis.

Coi due fucilieri in Italia – Latorre è a Taranto dal settembre del 2015, per effetto di una licenza medica rinnovata per ben cinque volte dai giudici indiani – l’opinione pubblica italiana termina ufficialmente l’attesa del rientro dei «nostri ragazzi», in previsione di un progressivo disinteresse del merito del caso all’Aja, dove entro l’estate del 2018 si deciderà chi, tra India e Italia, potrà istruire il processo che vede i marò imputati dell’omicidio di Ajesh Binki e Valentine Jelastine, uccisi da colpi d’arma da fuoco al largo delle coste del Kerala il 14 febbraio 2012.

Prossimo appuntamento al 2 giugno, nel timore che le spinte ipernazionaliste della destra vengano assecondate dalle istituzioni, decidendo di far sfilare «i due marò» alla parata militare per la festa della Repubblica a Roma.