Il generalissimo Kalipha Belqasim Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, non ha mai avuto così tanti buoni rapporti con l’Italia come ora. È tornato in Italia per due giorni, a Roma per la precisione, con fondamentale passaggio a Palazzo Chigi, a sole tre settimane di distanza dalla sua ultima visita, alla conferenza di Palermo.

E questa sua visita, sempre «privata», sempre senza incontrare la stampa o anche solo le telecamere, sempre ammantata di segretezza e sorpresa, quasi teatrale, un tratto che il generale non disdegna dalla vicenda della sua presunta morte e riapparizione in una clinica di Parigi l’anno scorso, è stata per un colloquio di ben due ore tête-à-tête, a parte l’interprete, a porte chiuse dentro il palazzo del governo con il primo ministro Giuseppe Conte. è da escludere che i sorrisi e la bonomia siano dovuti  al presepe già allestito nel cortile del palazzo, quanto a una ripresa forte delle relazioni tra Roma e Bengasi che avevano segnato il punto più basso con la dichiarazione di «persona non grata» all’indirizzo dell’ambasciatore italiano a Tripoli Giuseppe Perrone, nominato dal passato governo e grande sponsor del premier tripolino Fayez Serraj, finora grande rivale di Haftar.

Al di là se sarà confermata o meno nei prossimi giorni o settimane la voce di un prossimo ritorno in Libia di Perrone, ritirato da Tripoli a giugno per «problemi di sicurezza» e da allora messo in stand-by dalla Farnesina, che qualcosa sia cambiato riguardo al rapporto dell’Italia con Haftar è facile da dire: basti pensare alla ritrosia, all’incertezza fino all’ultimo minuto sulla sua venuta, che hanno caratterizzato la precedente visita in Sicilia, su invito dello stesso Conte, solo poche settimane fa. Di cosa abbiano parlato i due per due ore non è facile da indovinare. Il comunicato stampa di Palazzo Chigi è laconico e stringato al limite dell’imbarazzante: «Al centro dei colloqui i seguiti della Conferenza di Palermo e il sostegno al lavoro del rappresentante speciale e capo della missione delle Nazioni Unite di sostegno alla Libia Ghassan Salamè nell’ambito del processo di stabilizzazione del Paese». Niente a che fare con il contrasto ai flussi migratori, sui quali per altro Haftar non mai avuto, pur essendosi proposto, alcun ruolo per conto dell’Italia e l’Europa, non essendo riconosciuto a livello internazionale il suo governo di Bayda nell’est del Paese.

Per capire il senso dell’incontro di ieri a Roma e sia sintomo di un modificarsi degli equilibri libici, che interessano all’Italia non solo per i migranti, bisogna tornare a ciò che è avvenuto all’hotel Villa Igiea di Palermo a metà novembre. L’arrivo del presidente russo Dmitri Medvedev – insieme al suo omologo egiziano l’ex generale Abel Fattah al Sisi – ha risollevato le sorti diplomatiche della conferenza organizzata dall’Italia e aperto la strada all’alleato di sempre: Haftar, appunto. Sintetizzando allora si può dire che non è l’Italia ad aver cambiato cavallo rispetto all’impegno con Serraj ma è Mosca ad averlo fatto, preferendo ora Roma a Parigi sullo strategico dossier libico.

Non a caso Saif al Islam, secondogenito del Colonnello Gheddafi, in queste ore ha rotto il silenzio e scritto una lettera a Vladimir Putin in cui chiede di intercedere per partecipare con i suoi alla conferenza nazionale libica che ora anche per il portavoce di Haftar, Ahmed al Mismari, «dovrebbe tenersi nei primi giorni dell’anno nuovo» (da Al wasat) come passaggio decisivo verso elezioni generali da tenersi entro l’anno secondo l’agenda dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassam Salamé.