Cosa c’entra Marilyn Monroe con Béla Tarr? O Terminator con La bella addormentata nel bosco? Ce lo spiega Marcello Garofalo, critico cinematografico, saggista, sceneggiatore e autore di Il ritorno del diabolico Dr. CarelliApocalisse infernale, «favola horror per adulti» e secondo romanzo dedicato alle avventure del personaggio da lui creato, il «morto vivente» Phillip Carelli (già protagonista di Le calde notti del diabolico Dr. Carelli), che uscirà in Italia lunedì 15 marzo, in versione cartacea e digitale, per la casa editrice statunitense Dark Gem Press: «Una cosa abbastanza singolare, il fatto che l’editore americano abbia deciso di investire anche nel mercato italiano», commenta Garofalo, «evidentemente il buon riscontro del primo libro, da parte della critica e dai consensi dei lettori, ha fatto sì che venisse fuori questo secondo titolo».

Marcello, ma come si è sviluppata, effettivamente, l’idea?
Dopo il successo di Le calde notti del diabolico Dr. Carelli, l’editore americano mi ha proposto di scrivere un sequel, io non ci pensavo affatto. Però, prima di acconsentire, e prima che scoppiasse la pandemia, ho voluto riflettere un paio di mesi. Ho accettato solo quando sono stato sicuro di poter offrire qualcosa di coinvolgente, di folle, di politicamente scorretto come piace a me. Non mi interessava riproporre un seguito «pigro» e, questo lo dico a me stesso al momento, credo di aver vinto la scommessa. Saranno poi i lettori a giudicare, ovviamente.
Il protagonista, Phillip Carelli, scheletro immortale e giustiziere della morte, continua il suo compito prefissato: «Ammazzare individui di pericolosità o inutilità sociale». O meglio, «Calabroni avidi e merde umane».
Questa figura nasce dalla mia esigenza di creare un personaggio «giusto», che fosse originale per una horror comedy. E, soprattutto, che fosse lontano dai cliché abituali del mostro ottuso, sanguinario, magari anche moralista. Il dottor Carelli, poi, post mortem ha acquisito conoscenze superiori a ogni essere umano e quindi ha affinato ironia, sarcasmo. E ancora di più in questo secondo capitolo si dibatte tra essere «uomo» e essere «mostro», vivendo quindi vantaggi e svantaggi di entrambe le condizioni.

Scorrendo le pagine, i dettagli cinefili sono numerosi e variegati. Da Marilyn Monroe a Marco Ferreri, da Steven Seagal a Béla Tarr. Spicca inoltre una particolare predilezione verso l’universo Disney.
Non mi piacciono i riferimenti ombelicali o esornativi. Cerco sempre di far sì che la citazione si integri con la narrazione, nel senso che se viene colta da chi legge, bene. Chi non la raccoglie, gode lo stesso della situazione presentata. Un po’ come fa Tarantino con le memorie affettive, che sono assorbite con naturalezza all’interno del racconto. Accanto alle citazioni cinematografiche di base, che sono Frankenstein di James Whale e Taxi Driver di Scorsese, qui ce ne sono tante altre, come Le guerriere dal seno nudo di Terence Young, Terminator di James Cameron, Il merlo maschio di Pasquale Festa Campanile… Ho cercato però di tenere alla larga i retropensieri. Quello che mi interessa è un tipo di narrativa fresca, popolare, che non rompa le scatole al lettore. Poi, la letteratura «cacciata» dalla porta ogni tanto rientra dalla finestra: il linguaggio arcaico, forbito, adottato dalle due inservienti orientali, ad esempio, si rifà al romanzo cinese Il sogno della camera rossa, pubblicato nel XVIII secolo. Un linguaggio, appunto, che si insinua nel quotidiano. Riguardo all’universo Disney, invece, fin da bambino ho sempre avuto un debole per Malefica, quella del 1959. Forse è il personaggio animato che più mi ha terrorizzato. Quel suo sarcasmo abbinato alla ferocia, a quel modo di porsi… Irresistibile. Anche lei doveva tornare in qualche citazione.

Oltre alla cinematografia, anche i riferimenti legati alla gastronomia, alla medicina e al territorio americano sono estremamente minuziosi.
Sempre per la Disney ho realizzato diversi libri legati alla cucina, un’altra delle mie passioni, per cui era inevitabile che i personaggi ne risentissero. Trascorro poi molto tempo col traduttore americano, il validissimo Matthew Temple, ormai un caro amico. Per ogni dubbio che riguarda la realtà d’oltreoceano, mi affido a lui. Se ambienti una storia in un preciso paese, devi essere molto attento ai dettagli che scrivi. Le buste di patatine di Phillip Carelli, ad esempio, rispondono al fatto che negli Stati Uniti trovi una miriade di gusti bizzarri sugli scaffali dei supermercati… Invece, riguardo agli aspetti medici o relativi alla scienza oppure all’anatomia, mi sono documentato tanto… Sono sempre rimasto affascinato da una risposta che diede Roman Polanski quando, a proposito di L’inquilino del terzo piano, gli domandarono: «Come riesce a rendere così pauroso il quotidiano?», lui: «In realtà, il fantastico, per essere credibile, ha bisogno di molti dettagli, di molti agganci con la realtà, quindi con il ’vero’», in modo tale che questa simulazione risulti ancora più ingannevole perché è come se il narratore tendesse delle trappole al lettore/spettatore, immergendolo in una realtà assurda ma talmente caricata di dettagli presi dal «vero» che, in qualche modo, ne rimane travolto.

Travolto anche dall’«anulingus» praticato, a un certo punto della storia, da una rana in stile George McCowan…
(ride, nda). Queste sono provocazioni. Mi sono divertito a sovvertire l’immaginario da B-Movie, innestando cose che in quei film non ci sarebbero mai potute essere. Il manifesto di Frogs di McCowan, appunto, è meraviglioso, una cosa alla Jean Baudrillard, una simulazione spericolatissima perché si vede questa rana gigante con in bocca una mano umana che nel film non compare proprio. Un po’ come faceva anche Bertolucci quando voleva stupire con quei dettagli erotici talmente esagerati, talvolta imprevedibili. All’epoca non si potevano neanche immaginare, eppure lui li inseriva.

«In quest’epoca corrotta», la zia del protagonista, Eleanor Carelli, trova salvezza nei beveraggi fermentati e nel blues. Qual è la tua idea di «salvezza»?
Ho scritto il libro quando la pandemia non era ancora in atto. Lungi da me, come noi tutti, pensare che una cosa del genere potesse verificarsi. Credo che, nel momento in cui ci sia spazio per creare nuove situazioni, serva solamente autocoscienza nei confronti delle mutazioni contemporanee. Il Covid-19 ci ha mutati e non finirà qui, perché continuerà a condizionarci per i prossimi anni. Se non siamo noi a capire che dobbiamo «accettare» – ecco la modernità del cinema di Cronenberg -, resteremo indietro. La «salvezza» è, quindi, accorgersi in tempo che le cose stanno cambiando.

Se si dovesse realizzare una trasposizione cinematografica o seriale di questo dittico pulp, chi potrebbe rendere al meglio il tuo immaginario sul fronte tecnico-artistico?
Qualora iniziasse una trattativa tale, l’unica cosa che vorrei sarebbe quella di mantenere un minimo di controllo. Cosa che nelle produzioni americane, ad esempio, non succede, perché gli autori vengono estromessi. Non dico di voler essere invasivo ai livelli di J. K. Rowling con Harry Potter, per carità, non avrei né il poter né la possibilità. Però, mi piacerebbe che il tutto venisse svolto tenendo presente il mio lavoro tridimensionale sui personaggi. E soprattutto che gli interpreti siano attori «veri», non manichini da filmaccio horror. Nei panni di Eleanor Carelli vedrei bene una Jane Fonda o una Helen Mirren. Vedremo cosa succederà…

Ci sarà un terzo capitolo?
Sì, sto appunto pensando di realizzarlo in modo da poter formare una trilogia. Al momento sono alle prese con lo sviluppo della storia. Prima di iniziare con la scrittura devo sempre avere un’ossatura solida, idee molto buone scritte già in precedenza… Se tutto questo c’è, allora m’imbarco. Vorrei cominciare la stesura in primavera.