La crisi esplosa nel 2008 ha rimodellato i processi di sviluppo a livello mondiale.

La globalizzazione sembra aver cambiato di segno, divenendo alleata di un blocco asiatico a guida cinese contro uno a trazione anglosassone che ha sterzato verso il protezionismo. Insomma globalizzazione versus sovranismo.

Alcuni individuano in questa frattura persino una nuova declinazione dello scontro tra economia reale e finanziaria. Il rischio è di semplificare e non vedere gli elementi comuni che intrecciano i due campi in via di formazione.

Indubbiamente la dimensione geopolitica è risorta sulle ceneri dell’ideologia neoliberista, ma le trame in via di affermazione sono più trasversali di quanto possa apparire.

Da un lato l’economico resta centrale sia nella sua modulazione mercantilista sia in quella finanziaria. Come sottolinea il Fmi, la Cina ha ritmi di indebitamento della sua economia reale che non hanno nulla da invidiare ai paesi maturi.

Gli stessi paesi dell’Europa orientale con ritmi di crescita più elevati sono sospinti da un crescente indebitamento. Molti di quei paesi un tempo definiti emergenti, dunque, stanno bruciando le tappe verso un’economia di mercato finanziarizzata e dopata dal debito. Aumenta la loro crescita interna, ma tanta parte dei ritmi di crescita è frutto di apparati produttivi orientati all’export e ha come sbocco ancora i paesi occidentali.

Non è un caso che sia tuttora temuto un ritmo eccessivamente rapido della ripresa del costo del dollaro da parte della Fed. Troppi debiti in giro per il mondo sono in dollari.

Nel paniere delle monete di riserva mondiali, il dollaro negli ultimi venti anni è passato dall’85% al 60% circa, ma con un volume monetario notevolmente aumentato.

A dimostrazione di come lo stampar moneta sia stato espediente per aggirare le difficoltà a qualsiasi latitudine. La capacità della sfera finanziaria di produrre ha realizzato una specifica forma di moltiplicazione del capitale.

Con l’indebitamento strutturale tutti sembrano più ricchi. Da qui il permanere di un profondo intreccio tra economia finanziaria e reale.

Nonostante resti un’interdipendenza strutturale tra queste due dimensioni, l’economia reale sembra ripiegare su una scala locale.

Le guerre commerciali e fiscali di Trump vengono coniugate con un ritorno alla libertà finanziaria di Wall Street.

I dazi crescenti vengono anche interpretati come fattore per condurre guerre di posizione, specialmente da parte degli Stati Uniti contro la Cina; essi partirebbero dal piano delle produzioni materiali, ma avrebbero come obiettivo il contenimento dello scippo di tecnologia.

Gli Usa, infatti, restano un polo di primaria importanza in termini di innovazione tecnologica.

I bastioni produttivi affermatisi negli ultimi decenni però paradossalmente sono gli stessi che alterano la bilancia commerciale degli Usa, in quanto sono quelli che riescono a produrre dentro i confini nazionali, ma a farsi tassare in paesi con regimi fiscali più compiacenti. Da qui i tentativi della politica americana per rilocalizzare le produzioni (il cosiddetto reshoring), un fenomeno che raggiunge persino paesi come l’Italia.

È la tecnologia che riesce ad abbattere il costo del lavoro, rendendo appetibili i vantaggi della vicinanza della ricerca e la possibilità di ridurre l’incidenza dei trasporti, favorendo processi di riterritorializzazione.

L’economista Cristian Marazzi recentemente ha affermato che «è come se l’economia finanziaria fosse così globalizzata da poter sopportare una de-globalizzazione della cosiddetta economia reale».

Fratture e legami, vecchi e nuovi, che coesistono dentro un modello spurio in formazione, sempre basato sull’ipercompetitività, ma a geometria variabile, dove nella migliore delle ipotesi diritti e tutele per le persone vengono perseguiti in maniera strumentale al profitto.