Pensando all’attuale ruolo del debito privato e pubblico nell’economia contemporanea quasi non sembrano esser trascorsi gli ultimi undici anni. Come se la crisi da eccesso di debito non fosse neppure esplosa. È sufficiente volgere lo sguardo agli Stati uniti, epicentro del sisma economico-finanziario del 2008, per rendersene conto. Le politiche monetarie ultra-accomodanti hanno avuto come effetto collaterale la spasmodica ricerca di elevati rendimenti in tempi di tassi pressoché negativi. Qualche anno fa Morya Longo, riferendosi alla moneta facile che veniva messa a disposizione delle imprese oltre che degli Stati, ha parlato di «turismo finanziario» in cerca delle migliori offerte di denaro predisposte dalle banche centrali. Tra la vasta gamma di finanziamenti proposti al mondo delle imprese private si è fatto ricorso ai cosiddetti leveraged loans (finanziamenti a leva), cioè credito fornito da aziende specializzate a imprese già fortemente indebitate. Si tratta di investimenti ad alto rischio che poi vengono impacchettati in altri prodotti finanziari al punto da renderli difficilmente riconoscibili e da facilitare la loro circolazione nei mercati. In poche parole ricordano tanto i famigerati mutui subprime, con la differenza che sono dedicati alle imprese e non a un privato cittadino. Oggi gli enti regolatori e diversi osservatori stanno sollevando il problema che tale segmento dei mercati finanziari è notevolmente cresciuto negli ultimi anni. In particolare proprio negli Usa, dove ha raggiunto la cifra di 1.400 miliardi di dollari, raddoppiando dal 2010. I subprime avevano raggiunto i 1.300 miliardi.

Si teme così una bolla, tanto più in conseguenza del rallentamento economico globale in corso. Il debito privato è ripartito anche per le famiglie, dove favorisce il consumo e il debito studentesco. Nei mutui impazzano società non bancarie sottoposte a minor controlli e l’indebitamento per acquistare un auto è salito del 40% in dieci anni. Tali formule garantiscono il debito contratto direttamente con ciò che si è acquistato e non sul reddito di chi lo ha acquistato. La parabola è la medesima del passato e si conferma come l’unica strada per realizzare un rilancio dei consumi in tempi di stagnazione dei salari e di impoverimenti delle classi popolari.

Sul fronte del debito pubblico poi, sempre per restare negli Usa, le cose non vanno meglio. Il deficit federale nell’anno fiscale, cioè dallo scorso ottobre, ha superato i mille miliardi di dollari (1.070 miliardi circa) con un incremento pari al 19%. Un dato che non si verificava da sette anni.

Dal 2016 in termini assoluti è quasi raddoppiato. La responsabilità principale va addebitata al super stimolo fiscale predisposto da Trump, il quale ha ridotto considerevolmente la tassazione alle imprese.

Complessivamente il debito pubblico statunitense è esploso con le politiche anti-cicliche di Obama, ma ha continuato a crescere anche con il nuovo presidente, nonostante l’emergenza fosse formalmente terminata.

Il balzo del deficit di quest’anno lascia ipotizzare che l’aumento del debito proseguirà senza sosta. Complessivamente, dunque, gli Usa hanno trascorso una lunga fase di crescita economica e hanno ricondotto la disoccupazione ai minimi termini, eppure questi risultati sono stati accompagnati da una ripartenza dell’indebitamento. Per certi versi si potrebbe ipotizzare che proprio grazie a queste scelte, cioè riportando le lancette dell’orologio ai tempi anteriori la crisi, sono stati raggiunti questi risultati. Tant’è che, ai primi segni di stanca nel meccanismo dei pagamenti interbancari, la Fed immette nuovamente nel sistema liquidità in gran quantità (mille miliardi) e non esclude a breve un nuovo quantitative easing. Quali garanzie di solidità potrà mai dare un sistema basato sul debito, salvato a mezzo di nuovo debito?