«Ricordo una frase di Tiziano Terzani, a proposito dei suoi viaggi nei luoghi più caldi dell’Asia. Diceva che quando andava in questi posti sentiva la “storia”. Anche noi siamo andati a Genova per fare la “storia”. C’era un’energia che avvolgeva tutti. E tutti pensavano che, attraverso la critica, si potessero cambiare le cose». Sono le parole di Danilo Monte, regista torinese di origine napoletana, all’inizio del suo film Ottopunti.

A Genova ci andò nel 2001, l’anno del G8, e ci è tornato undici anni dopo con Timothy Ormezzano, protagonista del documentario, che verrà presentato – all’interno della rassegna Cinetica – domani sera a Torino, al Cineteatro Baretti di San Salvario. Timothy, in quelle giornate bollenti di luglio, aveva 26 anni e una telecamera in mano. Nello stesso giorno in cui morì Carlo Giuliani, fu picchiato, non lontano da piazza Alimonda, e incarcerato. Senza motivo. Una cicatrice sul volto gli ricorda, ancora oggi, quell’esperienza terribile. Un racconto che ha cercato spesso di rimuovere, di chiudere in un cassetto. Perché quelle ferite fanno sempre male.

Allora, perché tornare a Genova dopo tanto tempo? Perché riprendere in mano quelle vicende su cui si sono consumati fogli di giornale, migliaia di immagini, filmati, libri e spettacoli? «Perché – racconta Danilo Monte, che all’epoca aveva 25 anni e partecipava al progetto Indymedia – hanno represso, con inaudita violenza, la voglia di cambiamento di una generazione intera. E, oggi, più che mai dobbiamo fare i conti con questo trauma aperto ma dimenticato. La storia di Timothy rivela questo ed è emblematica». Genova è stata uno spartiacque generazionale per i ventenni dell’epoca e non solo.

Non è stato semplice riannodare i fili. Timothy non voleva. Non voleva mettersi di fronte a una macchina da presa e raccontare se stesso: il peso di quelle manganellate infinite, le manette strette ai polsi, gli insulti degli agenti, le violenze dietro le sbarre, gli otto punti di sutura. Considerava la sua storia dolorosa, ma pur sempre, citando Guccini, «una piccola storia ignobile», rispetto alle vicende di Carlo, di Bolzaneto o della Diaz. Danilo, invece, insisteva sull’importanza delle microstorie. Anche per lui il trauma non era sedato. Era passato indenne, stretto alla sua fedele Sony Video8, accanto a terribili avvenimenti, talvolta sfiorandoli inconsapevolmente. Era al carcere di Marassi quando il blocco nero tentò di assaltarlo, in piazza Manin durante la carica delle forze dell’ordine, nei pressi di via Tolemaide quando bruciò una camionetta dei carabinieri e, poco più in là, moriva Carlo. Il sabato, si trovava sul lungomare durante le violentissime cariche della polizia.

Alla Diaz avrebbe dovuto dormirci: «Mi addormentai – racconta Monte – sul marciapiede tra le due scuole, stordito dai lacrimogeni. Nel cortile della Diaz c’era una cassa con la musica e vedevo gente con i sacchi a pelo entrare. Mi sfiorò l’idea di andare a prendere il mio sacco e sistemarmi in quel posto che appariva accogliente. Poco dopo, vedendo, però, andare via altri amici mi unii a loro. Ci dirigemmo verso Brignole per prendere il treno. In viaggio, ci arrivò la notizia del massacro alla Diaz. Ancora oggi mi sento un miracolato. Con Timothy, che conoscevo dai tempi del Dams di Bologna, ci eravamo incrociati per strada. Io sono tornato incolume, lui no. Ma le ferite di Genova, in questi anni, hanno bruciato per entrambi».

Ci sono voluti diversi mesi prima che Danilo riuscisse a convincerlo. Una lettera, scritta nell’ottobre del 2011, ha mosso qualcosa: «Genova 2001 per me rappresenta la disillusione, la fine della “giovinezza”, il mondo che ti dice “Svegliati, smetti di sognare!”». E lo fa con uno schiaffone fortissimo. Ora, a tanti anni di distanza, voglio raccontare l’esperienza di chi è tornato da Genova con lacerazioni ancora non rimarginate, per capire di più. Per metabolizzare e per ricominciare a sognare». Sì, sognare, quello che una generazione, in un certo senso sconfitta, aveva smesso di fare. Genova, in realtà, fu una vittoria di Pirro per uno Stato senza coscienza, che aveva pensato di reprimere con la violenza il desiderio di un mondo più giusto. Gli ideali di Genova non sono morti, forse solo sopiti. «Danilo – spiega Timothy – mi aveva lavorato ai fianchi. Alla fine mi ha convinto. Gli ho detto detto “Ok ritorniamo a Genova, ma tu vieni con me”».

E così, zaino in spalla e troupe al seguito, sono ripartiti. E con loro risuonano le parole di Paolo Conte: «Con quella faccia un po’ così/ quell’espressione un po’ così/ che abbiamo noi prima di andare a Genova/ che ben sicuri mai non siamo/ che quel posto dove andiamo/ non c’inghiotte e non torniamo più». Non sono stati inghiottiti, Danilo e Timothy sono tornati con un film toccante, che ha evitato la scorciatoia del sensazionalismo, e ha rimesso insieme i fili della memoria, per curare vecchie lesioni e alleviare il dolore. E prospettare, se possibile, un futuro migliore. “Cinema è per me terapia” spiega il regista Monte. Se in primo piano si muove la storia di Timothy, che ora fa il giornalista come suo padre (il più famoso Gianpaolo, già direttore di Tuttosport), sullo sfondo emergono le voci e le figure di Giuliano e Haidi Giuliani e Don Gallo.

In Ottopunti, Danilo Monte, che nella sua produzione video è sempre stato sensibile alle tematiche sociali, ha deciso di tralasciare le immagini di repertorio, che negli anni avevano saturato la narrazione sul G8. Danilo e Timothy, nel film, percorrono la Genova di oggi, gli stessi luoghi che in quei giorni di luglio, erano diventati campo di battaglia, o, che al di là delle grate ospitavano i potenti riuniti in un summit iper-militarizzato. Sono passati tanti anni, le tracce di quella guerra non ci sono più. Ma, ogni incrocio, ogni palazzo, ogni marciapiede, nel documentario, urlano ancora le voci e i suoni di quell’estate. Ecco, perché Danilo in post-produzione ha utilizzato come tappeto sonoro le dirette di Radio Popolare tra il 19 e il 22 luglio 2001. Non hanno perso l’effetto di un cazzotto potente come quello sferrato dal pugile sul ring in bianco e nero che scandisce le sequenze del film.

Timothy Ormezzano, che in carcere scrisse un diario, racconta: «Mi mostrarono uno scudo di plexiglas trasparente con una maniglia verde e scrissero nel verbale che era mio. Non era vero. Poi, mentre raggiungevo il carcere di Pavia, capii che diversi di noi erano stati accusati di essere proprietari dello stesso scudo. Ci facevano sfilare nudi negli uffici del comando provinciale di Forte San Giuliano (vicenda per la quale non è mai stata aperta alcuna inchiesta). Ci deridevano e ci chiamavano Rocky per il labbro nero e per i lividi. Eravamo contro il muro e ci riempivano di calci». Il padre Gianpaolo, intervistato nel film, andò ad aspettarlo fuori dal carcere di Pavia: «Fu il momento più lancinante della mia vita. Mi trovai sprovvisto di parole. Pensai che mio figlio potesse dirmi “andate a farvi fottere con tutto quello che mi avete insegnato”. Lo abbracciai con la paura di fargli male. Dopo, ci siamo, se è tecnicamente possibile, legati ancora di più».

Timothy è tornato in piazza Alimonda, durante l’anniversario della morte di Carlo nel 2012, insieme al figlio Matteo, alla compagna Elisa, al padre e a Danilo. Il trauma è stato, con lacrime e difficoltà, forse elaborato. Le ultime parole del film sono di Haidi Giuliani che si rivolge a Danilo: «L’energia di cambiamento la dovete trovare dentro di voi e in quelli che vengono dopo. Spesso incontriamo ragazzi e ragazze che nel 2001 non avevano ancora 10 anni. È a loro che dobbiamo parlare».

Ottopunti sarà replicato l’8 (al Cecchi Point) e il 10 ottobre (al Centro studi Sereno Regis), sempre all’interno della rassegna torinese Cinetica, nata per diffondere il documentario di qualità in sale indipendenti.