Quando vent’anni fa iniziarono a piovere bombe sul Kosovo, Dushi non era che un bambino. Suo padre Xhelal lo mise assieme alla madre e ai suoi fratelli su uno dei tanti treni diretti a Blace, in Macedonia. Nelle undici settimane di quella primavera del 1999 Xhelal invece restò a Mitrovica. A ogni barlume in cielo, uno squarcio nella terra. Una crepa profonda che avrebbe risucchiato per sempre i vivi e i morti.

Quindici anni dopo, Dushi, allora 28enne, si è trovato invischiato in un’altra guerra, quella in Siria. Non credeva al Califfato né alla sharia né alla guerra contro gli infedeli. Era solo un ragazzo povero, diabetico, con una madre malata sulla sedia a rotelle. Una telefonata al padre, «sono in Germania», Dushi aveva mentito anche ai suoi.

COME TANTI IN KOSOVO si era fatto abbindolare dalle promesse di lauti guadagni. La Siria come un gran casinò in cui potersi arricchire. È stata questa l’immagine rivenduta dai reclutatori ai «foreign fighters» partiti da qui negli ultimi cinque anni, circa 400, il più grande contingente in Europa sul totale della popolazione. Un’immagine che ha fatto presa soprattutto tra i giovani kosovari in gran parte, quasi 6 su dieci, disoccupati e impossibilitati ad andare all’estero a cercar fortuna.

Ora che l’Isis è sconfitto, il Kosovo conosce l’ultima mutazione. Da principale «hub» del jihadismo nei Balcani a primo e finora unico Paese con un piano di rientro per i «foreign fighters» kosovari ancora in Siria. Centodieci quelli finora rimpatriati. Quattro uomini, 32 donne, 74 bambini. Altrettanti quelli ancora in Siria. E una domanda: funzionerà?

MAGGIO 2016. Un’altra primavera incrina la vita di Xhelal. Dushi era tornato a casa da poche settimane. Aveva confessato al padre il motivo del suo viaggio in Siria. «Mio figlio mi raccontò che gli avevano promesso un lavoro in un ristorante e delle cure per il diabete. In Kosovo campava con una pensione di invalidità, 120 euro al mese, bastava appena per le medicine».

Dushi non aveva aggiunto molto altro. Nessun riferimento a chi lo ha reclutato, pochi accenni alla Siria e una promessa, «non partirò mai più». Promessa infranta la notte del 12 maggio. La polizia aveva fatto irruzione nell’appartemento, lì dove viveva tutta la famiglia di Xhelal, sua moglie, i suoi figli, i suoi nipoti. Un interrogatorio durato fino all’alba, poi il rilascio. Preso dal panico Dushi ha scelto di nuovo la Siria. Ora è lì, il suo corpo dilaniato da una granata.

«CHI GLI HA DATO I SOLDI per partire? Non aveva nemmeno il passaporto». Xhelal batte i pugni sul tavolo, vuole giustizia per la morte di suo figlio. Finora le autorità di Pristina non hanno individuato alcuna organizzazione dietro le partenze dei «foreign fighters», eppure dalla base americana di Camp Bondsteel in Kosovo sono stati monitorati costantemente i flussi di chi andava e tornava dalla Siria.

«Mi hanno bruciato l’anima, distrutto la vita per la seconda volta». Fa una lunga pausa Xhelal, il volto scavato dalla sofferenza. Lo ama e lo odia di un odio cieco quel figlio, «il mio migliore dei miei figli». A causa sua la famiglia di Xhelal è marchiata a fuoco con l’infamia. «Terroristi, ci chiamano».

SUA MOGLIE È MORTA di crepacuore, i figli faticano a trovare lavoro. Tutti sanno e nessuno vuole più avere a che fare con loro. Xhelal ha perso anche la casa in cui abitava, ora vive stipato con il suo stuolo di figli e nipoti in una manciata di metri quadri. Per la precisione, nella zona serba della città, come a voler dire che lui, albanese, è passato dalla parte degli oppressori.

Dushi di famiglia ne aveva un’altra. Una donna sposata in Siria e un figlio venuto al mondo prima di morire. «Sta bene, somiglia a mio figlio». Sorride Xhelal, è la prima volta che vede suo nipote. Vive insieme alla madre, ora agli arresti domiciliari, in una casa alla periferia di Pristina. Per loro l’incubo è finito il 20 aprile scorso quando sono rientrati in Kosovo nel quadro del piano elaborato dal governo con la collaborazione di Stati Uniti, Unicef e Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Al momento del trasferimento la maggior parte di loro si trovava nel campo profughi di Al Hol nella provincia di Hassakeh, Siria nord-orientale. Si erano riversati lì in migliaia dopo la caduta di Baghouz, ultima roccaforte dell’Isis. Annex è la sezione del campo dove vivevano in uno stato prossimo alla detenzione insieme ad altri stranieri, in gran parte donne e figli dei guerriglieri. Reietti tra i reietti, il ritorno in patria per loro non è un’opzione possibile. Per tutti o quasi.

MOLTI DEGLI STATI di provenienza si rifiutano di farli rimpatriare. Il Kosovo ha fatto una scelta diversa, una scelta su cui non poco hanno pesato le pressioni dell’alleato americano. «Un giorno sarebbero comunque tornati, volevamo essere pronti» spiega Fatos Makolli, coordinatore del dipartimento per la lotta al terrorismo e all’estremismo violento. Così quando nel 2017 l’Isis ha iniziato a perdere terreno, un gruppo intergovernativo guidato dal ministero degli Interni ha sviluppato un piano di riabilitazione e reintegrazione dei «foreign fighters».

Nella fase preliminare Unicef e Oim hanno formato medici, psicologi e operatori sociali che si sarebbero occupati in un secondo momento dei combattenti e dei loro familiari. Una formazione specifica per la cura di persone provenienti da zone di guerra.

Al rientro è scattata poi la fase d’emergenza. Il gruppo dei 110 è stato portato in un centro per 72 ore su richiesta dell’Istituto di sanità pubblica per effettuare esami medici e psichiatrici. «Molti di loro – racconta Makolli – erano in condizioni igienico-sanitarie precarie poiché avevano vissuto a lungo in campi di prigionia. Per non parlare poi dello stato psichico in cui versano le donne, spesso vittime di schiavitù sessuale, e dei bambini, la maggior parte dei quali ha meno di sei anni».

AL PERCORSO RIABILITATIVO si affianca quello reintegrativo. Donne e bambini vengono quotidianamente seguiti da un team di psicologi e assistenti sociali. Un compito molto delicato se si tiene conto del fatto che soprattutto i bambini hanno trascorso gli anni della formazione della propria persona in aree controllate da gruppi estremisti, crescendo esposti a eventi traumatici e ad un’intensa e pervasiva attività di indottrinamento.

Per i minori poi è stato disposto un programma di recupero degli anni scolastici persi per permettere loro di andare a scuola già da settembre.

Il rientro dei «foreign fighters» pone però anche altre questioni, in primis quella della sicurezza. Gli uomini e le donne rimpatriate sono stati ascoltati dai magistrati che hanno ordinato il carcere per i primi e gli arresti domiciliari per le seconde. E dato che le carceri sono uno dei luoghi cruciali per fare proselitismo, il governo ha lanciato un piano specifico di deradicalizzazione attuato da quest’anno con il sostegno dell’Ue.

«Si tratta di persone contagiate da un’ideologia importata dal Medio Oriente» prosegue il numero uno dell’antiterrorismo Makolli che traccia un bilancio positivo dell’azione di contrasto al jihadismo. «Il Kosovo si è dotato di strumenti giuridici appositi, 150 persone sono state arrestate negli ultimi sei anni, i tribunali hanno emesso 80 sentenze e ci sono ancora molti casi pendenti. Abbiamo lavorato anche a sviluppare un approccio della società rispetto al terrorismo tale da delegittimare l’ideologia estremista dell’Isis».

PIÙ SFUMATA la valutazione di Haki Abazi, analista politico ed esperto in cooperazione allo sviluppo, che contestualizza il fenomeno del jihadismo nelle dinamiche complesse dei Balcani. «In primo luogo occorre ricordare che buona parte dei combattenti kosovari è partita in Siria nei primi due anni di guerra, quando ancora l’Isis non esisteva.

L’allora ministro degli Esteri Enver Hoxhaj, ricorda Abazi, invocò una campagna militare simile all’intervento Nato del 1999 per rovesciare il regime di Bashar al Assad associato spesso a Slobodan Milosevic. A questo si è aggiunto il tentativo di alcuni Stati della regione di dipingere il Kosovo come un covo di tagliagole dell’Isis».

Così secondo Abazi l’intensa campagna di arresti sarebbe stata a volte una risposta spettacolare a questa tacita accusa, risposta che però non aggredisce il problema alla radice da rintracciarsi invece nelle macerie del conflitto in Kosovo.

«Stiamo parlando di una società ampiamente secolarizzata che soffre semmai della disintegrazione di reti sociali come la famiglia che costituivano l’ossatura della comunità prima della guerra. Una guerra che – prosegue l’analista – ha inciso anche sullo stato psichico degli individui che ricorrono in modo massiccio e incontrollato ad antidepressivi e psicofarmaci. Questo insieme alla fragilità delle istituzioni è stato il terreno fertile su cui ha attecchito il jihadismo soprattutto in aree meno sviluppate del Paese».

Aree in cui negli anni successivi alla guerra è stata incisiva l’attività di organizzazioni umanitarie saudite che hanno creato un vero e proprio sistema di welfare parallelo a quello statale. Sono state queste organizzazioni uno dei veicoli di diffusione del salafismo, la versione più ortodossa dell’Islam.

Una vicenda complessa che intreccia questioni del passato a fenomeni più recenti in un groviglio tutto ancora da districare.