Una delle maggiori novità procedurali dell’ultimo biennio è senza alcun dubbio la legge 28 giugno 2012, n. 92, altrimenti conosciuta come legge Fornero. Non si tratta della omonima riforma che ha modificato l’età pensionabile, bensì del pacchetto di norme che hanno cambiato il processo del lavoro, cosa che riguarda decine di migliaia di persone l’anno anche se pochissimo se ne parla. Sui media, si intende, stampati, digitali e quant’altro. Perché almeno nelle sedi competenti degli addetti ai lavori, l’argomento è per fortuna al centro dell’attenzione. Di una attenzione piuttosto seccata perché, come dice Enzo Martino, avvocato torinese, consulente Fiom, che è stato tra coloro che hanno vinto la battaglia di Pomigliano e quella in Corte Costituzionale, «la toppa è stata peggio del buco», riferendosi alle promesse di velocizzazione e di deflazione delle cause di lavoro che si sono risolte nell’esatto contrario. E cioè un appesantimento del rito e un rallentamento dei tempi di conclusione. Oltretutto, la valutazione è assolutamente bipartisan (nel senso che trova d’accordo i legali dei lavoratori e quelli dei datori di lavoro), come dimostra un recente articolo di diritto24 che fornisce un dato preoccupante: le controversie erano state 30 mila nel 2012, mentre nel 2013, ad oggi, sono già 35 mila e si presume arriveranno a 40 mila entro la fine dell’anno.Non è infatti per caso che, lo scorso 18 ottobre, il congresso nazionale dell’Agi, Avvocati giuslavoristi italiani, abbia approvato un documento che chiede, tout court, senza giri di parole, l’abolizione della legge 92.
Come è potuto succedere? Per capire, è importante avere a mente che la Fornero ha modificato il rito processuale soltanto per i licenziamenti, mentre tutte le altre controversie nell’ambito del lavoro sono rimaste ancorate al tipo di processo istituito nel 1973 e differenziato (più rapido, più incisivo e con maggiori poteri istruttori al giudice) dal resto del processo civile: «La legge 533 del 1973, pur avendo 40 anni, è ancora vitale e necessitava semmai di qualche ritocco migliorativo. Ad esempio, a proposito delle cause previdenziali», continua Martino. In effetti, scorrendo le statistiche, non sfugge che il peso maggiore nel carico pendente del settore è occupato proprio dalle cause previdenziali, quasi 600 mila su un totale di 900 mila fascicoli del lavoro, la metà delle quali incardinate in Puglia (si tratta di cause seriali a cui andrebbe trovata una soluzione in fretta). Ma lasciamo la parola all’avvocato Martino: «Il rito Fornero non riesce ad avere orientamenti giurisprudenziali univoci nemmeno nello stesso tribunale, a causa della pessima fattura tecnica con cui ci è stato consegnato». La legge di cui si chiede l’abolizione prevede che, in caso di licenziamento, si proceda con una sorta di giudizio sommario immediato, in cui il giudice emette un’ordinanza immediatamente esecutiva di rigetto o accoglimento. Questo se le parti accettano, altrimenti si passa alla fase di cognizione piena, con un altro processo. E poi, ovviamente, c’è l’appello ed eventualmente la cassazione. «Risultato? Considerando che il primo grado è stato scisso in due fasi distinte, quella sommaria e quella di cognizione, i gradi di giudizio sono nei fatti diventati quattro, con conseguente allungamento dei tempi». Non è finita. E’ data la possibilità che il giudice, avviata una fase, decida che il rito Fornero non si addica a quella domanda di giustizia e in tal caso può a) concludere ugualmente, b) ordinare di cambiare rito (ricominciando la causa con il rito del ’73) o c) dichiarare inammissibile la domanda. In tal caso, si ricomincia daccapo. Sono insoddisfatti anche i magistrati, poiché l’introduzione del nuovo processo ha rallentato le cause con rito ordinario, rovinando ad esempio le statistiche produttive dei tribunali più efficienti.