Il corpo può essere inteso come uno strumento che trasforma ed è trasformato dall’esperienza, dal suo essere mondo. Il nostro corpo crea suono e insieme ne è attraversato come una cassa armonica. Produce e amplifica la propria voce. Noi siamo voce e movimento, microcosmi di vibrazioni che interagiscono con il tutto e contemporaneamente. Siamo corpo sensibile, chimica viaggiante.
La riflessione più intensa sul rapporto canto/corpo/paesaggio nacque qualche anno fa quando ricevetti la proposta di pensare a un intervento che abitasse per alcuni mesi un versante del Monte Bulgheria, nel Parco del Cilento e del Vallo di Diano. Andai diverse volte in quei luoghi, vi camminai spesso coinvolgendo altri camminatori (un antropologo e una poetessa, un architetto, un geografo e un’esperta della botanica locale) per raccogliere sguardi diversi.

SGUARDI DI CHI VIVEVA LÌ da sempre o di chi, come me, arrivava da paesaggi, naturali e antropici, assai diversi. Ascoltando i suoni che si propagavano in maniera anarchica, seguendo l’orografia pietrosa del versante montano, i venti marini e d’entroterra che lì s’incontravano, seguendo direzioni non facilmente prevedibili, «vidi», sinesteticamente, la voce abitare quel luogo. Non una singola voce, come il flauto del pastore che abbi la fortuna di sentire, ma un canto a più voci. Come le voci che si radunavano negli jazzi per le feste, i dialoghi a distanza, i canti delle donne che salivano da valle con pesi enormi sulla testa per «nutrire» i propri uomini.
Voce a vento, questo il titolo del lavoro originato da quell’esperienza, prese una direzione progettuale collettiva al cui centro stava il canto corale. A questo aggiunsi grandi maniche a vento, trasformate in modo sartoriale perché le loro forme assecondassero le correnti e, allo stesso tempo, richiamassero le immagini di anfore o grandi carpe, come le «koinobori» della tradizione giapponese.

IL CANTO, «STRUMENTO» che non ho mai adottato prima di Voce a vento, è ora un punto importante del mio lavoro. Questo ha a che fare anche con la memoria che conservo da anni delle abitanti di certe isole scozzesi che, almeno fino agli anni Cinquanta, usavano battere ritmicamente, sedute a un tavolo, le pezze di tweed al tempo delle waulking songs. Improvvisavano e ruotavano una pezza di tessuto cucita ad anello, lunga decine e decine di metri, bagnata a volte di piscio per follarla meglio, raccontandosi pettegolezzi, scherzando, ricordando per sopportare la fatica.
A questo si aggiunge un altro ricordo cantato: quello delle donne di risaia dei miei paesaggi d’origine, che è anche il canto dei campi, della mietitura o della raccolta delle olive, quando la voce aiuta il fiato a tenere e a continuare la fatica.

A causa di queste memorie latenti, immaginai per la montagna del Cilento una voce femmina. Per questa voce scrissi dei testi poi musicati da Meike Clarelli (cantante, compositrice e direttrice di cori) e cantate da trenta donne emiliane e cilentane mentre salivano faticosamente un sentiero sferzato dai venti.
Come allora, ciò che mi interessa del canto corale è come il corpo del singolo diventi parte di una collettività, seppur temporanea. Come in un rito collettivo, questi corpi cantanti e camminanti si muovono nei paesaggi nominandone parti, scegliendo, tra le tante possibili letture, alcune parole, le mie. E tante sono le variabili, umane, temporali, ambientali che possono modificare senza controllo quello che accade. Come la vita.
Non possiamo leggere fino in fondo un luogo che visitiamo. Non vi apparteniamo. Siamo ospiti. Eppure il nostro essere lì crea un paesaggio, anch’esso transitorio, di nuove relazioni tra ciò che c’è ed è stato. La grammatica di quel territorio si mescola alla nostra e ne portiamo via una memoria nuova, che muove da punti cardinali diversi.

IN QUESTI TEMPI così difficili, per i nostri corpi e le nostre anime, dove non si può facilmente stare insieme, è un grande dono poter condividere questi progetti di canti collettivi a venire.
Mi viene in mente una citazione di un grande esploratore e scrittore americano, Barry Lopez, da Arctic Dreams, inno all’ecosistema artico come ecosistema per l’immaginario umano tra i più potenti: «Le percezioni degli umani dilagano sulla terra come un’alluvione e lasciano idee appese ai cespugli, come frammenti di carta bagnata da raccogliere e decifrare. Nessuno è in grado di raccontare l’intera storia».
Poter raccogliere, tenere in tasca alcuni di questi frammenti e decifrarli, potrebbe essere la ragione che sta alla base del mio lavoro, del mio canto.

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SCHEDA. Da oggi al via la seconda edizione del festival «Sette Giorni per Paesaggi»

Il festival «Sette Giorni per Paesaggi», si trasforma da oggi in podcast. Sette puntate, su storielibere.fm, con lectio e incontri aspettando l’edizione «fisica» 2021. Questa del 2020 sarà dedicata agli Immaginari del limite. Tanti gli ospiti: da Ugo Morelli a Davide Assael, da Anna Zegna a Francesco Erbani e poi Alice Benessia, Antonio De Rossi, Michele Carini. L’artista Claudia Losi, fondatrice di En Laboratorio collettivo e co-direttrice insieme a Giovanna Cavalli del festival «Sette Giorni Per Paesaggi», spiegherà come il corpo e la voce siano al centro del suo lavoro.