Ogni anno, sulle ceneri della festività patronale di Sant’Ambrogio, ci corre l’obbligo di ricordare che l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala si offre come un rito collettivo in cui l’opposizione fra due folle, quella dentro e quella fuori dal teatro, in un’orgia di sussurri, grida, pose, gesti scomposti, violenze, maschere da ambo le parti, mette in scena il momento mitico del passaggio dal caos all’ordine, esprimendo un bisogno di periodica rigenerazione. Gli immancabili tafferugli, quest’anno motivati dall’emergenza case, pur esprimendo bisogni reali e drammatici, nella cornice del 7 dicembre si riducono alla simulazione di una regressione caotica che dovrebbe precedere una creazione, ma che, terminato il rito, per quanto penoso possa essere il bilancio delle casualties (quest’anno 3 feriti tra i manifestanti e 2 tra i carabinieri), puntualmente si rivela solo una ricreazione, nel doppio senso di ripetizione di un evento sempre uguale a se stesso e di parentesi di svago ed evasione dalla realtà. Nessuna rigenerazione dunque, ma solo una serata adrenalinica e fatalmente politica.

Dopo l’era delle assenze vistose di Berlusconi, solo in parte emendate dal salottiero Monti, l’inaugurazione del 2014 sarà ricordata per il forfait all’ultimo minuto del premier Renzi, di poco preceduto da quello del presidente Napolitano. Nel palco reale c’erano il presidente del senato Grasso, il ministro dei beni e delle attività culturali Franceschini e il sottosegretario Scalfarotto; in sala la direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde. Mentre in teatro cala il silenzio, fuori il rumore della protesta, il dramma di una società in crisi che reclama attenzione, allo stesso tempo attratta e insofferente verso la sfacciataggine distaccata del lusso. «Le proteste ci sono sempre state» ha ricordato il sovrintendente Pereira, spiegando che gli incassi della serata (biglietti in platea a 2400 euro) serviranno per finanziare l’accademia o eventi per i giovani.

Poi, dopo l’immancabile inno nazionale (lo stesso che Barenboim dimenticò nel 2012), la calma surreale della serata avvolge le note del formidabile Fidelio. Austera, magniloquente, tenera, malinconica, eroica, a tratti armonicamente inaudita per i tempi in cui è stata composta, la travagliata partitura di Beethoven (che conta ben tre versioni: «Di tutte le mie creature, Fidelio è quella la cui nascita mi è costata i più aspri dolori, quella che mi ha procurato i maggiori dispiaceri. Per questo è anche la più cara; su tutte le altre mie opere, la considero degna di essere conservata e utilizzata per la scienza dell’arte») mette alla prova il direttore, che vi si avventura con mano salda e grande partecipazione emotiva, riuscendo nell’impresa ardua di animare un universo tanto drammaturgicamente povero quanto musicalmente ricco: la direzione talvolta è un po’ greve, gli ottoni un po’ sparati, ma la tenuta d’insieme è intensa, rigogliosa, appassionante, soprattutto nelle parentesi sinfoniche (l’ouverture, la famigerata Leonore n. 2, e l’introduzione all’atto secondo).

9barenboimallascala

Alla fine del primo atto il direttore musicale uscente è stato omaggiato da un «grandissimo il maestro», all’inizio del secondo da un «evviva!» cui ha risposto ironicamente con «speriamo!», suscitando l’ilarità del pubblico, e alla fine dell’opera da una vera ovazione. La regista Deborah Warner, che alla Scala abbiamo apprezzato nel 2011 per Death in Venice di Britten, ha risolto i tratti un po’ schematici della pièce à sauvetage in voga a inizio Ottocento (in cui invariabilmente qualcuno, di solito l’eroina, deve essere liberato dalla prigionia) e le stasi del singspiel (che alterna parlato e canto), enfatizzando il messaggio anti-tirannico e libertario del libretto attraverso i contrasti oscurità-luce, così facendone, grazie anche alle scene di Chloe Obolensky e alle luci di Jean Kalman, una sorta di palinsesto di Die Zauberflöte di Mozart.

In questo allestimento la prigione di stato spagnola diventa una vecchia struttura industriale abbandonata: pareti altissime di cemento a vista, bidoni, vecchi macchinari, tavolini e scartoffie, lenzuola stese, asse da stiro. Unica pecca registica: il gelo degli amanti nella scena dell’agnizione. Bravissima Anja Kampe nel ruolo della protagonista, ben centrato Kwangchul Youn (Rocco), freschi Mojca Erdmann (Marzelline) e Florian Hoffmann (Jaquino), squillanti Falk Struckmann (Don Pizzarro), Peter Mattei (Don Fernando) e Klaus Florian Vogt (Florestan).