Alla diffusa volontà di «creare dibattito letterario» – la più svuotata di senso, oggi, tra le eredità novecentesche – fa felicemente eccezione il modo pacato e discreto in cui è emersa negli ultimi anni la questione del linguaggio poetico.

Quali facoltà espressive sono implicate nella poesia? Qual è il suo oggetto? Che cosa si intende per «io lirico»? Interessante e al contempo sintomatico, su questo piano, è il bel saggio di Guido Mazzoni (Sulla poesia contemporanea, Il Mulino), che individua proprio in un progressivo definirsi della soggettività il discrimine tra poesia antica e moderna: ad un io «universale», che secondo l’autore sarebbe tipico della cultura premoderna (le categorie psicologico-morali impiegate nella filosofia aristotelica; il valore «esemplare» dell’io petrarchesco nel Canzoniere) si sostituirebbe un io «empirico», volontariamente e irrimediabilmente individuale (quello leopardiano che «naufraga» nella percezione del paesaggio). Almeno un paio di cose si possono opporre a questa ricostruzione: sul piano concettuale, anche un io che venga rappresentato come chiuso nel limite della sua empiricità può proporsi, proprio per questo, in forma esemplare; sul piano storico, le categorie psicologiche del mondo premoderno non comportano affatto una concezione dell’io più astratta e «universale» di quella che ha dominato il Novecento, come afferma Mazzoni: in cosa mai il concetto di magnanimità o di anima sensitiva aristotelici sarebbero più livellanti, in relazione alla molteplicità degli individui, del concetto di pulsione di morte e dell’inconscio freudiani?

Si può affermare che la dorsale della storia letteraria è costituita da una progressiva emersione d’un io «individuale» solo se si sovrappone al materiale storico una concezione idealistica del soggetto umano: sovrapposizione, questa, assai radicata nella tradizione dei nostri studi. Mazzoni eredita appunto da Croce e Contini l’idea che la storia intellettuale e letteraria sia espressione di un «io» di tipo idealistico (l’io universale, l’io empirico ecc.: Contini parlava di «soggetto trascendentale»). Quest’idea, giudicata come un residuo metafisico dal più intelligente materialismo novecentesco (quello gramsciano, ad esempio), è tuttavia difficile da rimuovere, a tutt’oggi, dall’orizzonte della riflessione filosofica, costituito appunto dal piano non contingente ma «trascendentale» dei concetti. E la poesia? Su che piano si colloca?

Radicali rivelazioni

All’esatto opposto della filosofia, la poesia è espressione di una radicale contingenza: quella delle percezioni e delle emozioni di un singolo individuo. Provò a dirlo Boccaccio ma venne culturalmente sconfitto dalla promozione della poesia a rivelazione teologica operata da Dante e Petrarca. Su questo secondo piano, che continuava in chiave cristiana un tema platonico, hanno avuto buon gioco a collocarsi non solo le letture idealistiche del soggetto poetico, ma anche quella misticheggiante che Heidegger applicò ad Hölderin: la poesia e il linguaggio sarebbero rivelazione dell’«essere». Che cosa diavolo è «l’essere»? In questa sede mi limiterei a rispondere che è come dio: se ci si crede, è per un puro atto di fede. Chi, come me, non crede, deve limitarsi a costatare che, al di qua dell’astrazione concettuale (quella impiegata in filosofia o in matematica, ma non in poesia), esistono solo immagini fantastiche, cioè di singoli fenomeni: alla poesia pertiene solo questo secondo genere di immagini, anche nel caso in cui esse divengano (come in Lucrezio, o Dante) contenitori di verità concepite come assolute. La posizione di Boccaccio coglie dunque questo punto, che Heidegger distorce, invece, camuffandolo in una sorta di misticismo nominalistico.

Proviamo allora a seguire l’onesta intuizione boccacciana: oggetto della poesia, espressione di singoli uomini immersi nella loro esistenza, è ciò che sottostà alle «forze della fortuna», cioè il divenire. È altrettanto vero, tuttavia, che queste immagini contingenti – questa montagna, questo fiume, questo stato d’animo – in poesia sembrano superare il proprio limite spaziotemporale : questa evidenza conduce a scomodare le categorie dell’universalità per definire il linguaggio poetico.

In che modo definire allora ciò che, nella poesia, sembra tendere le immagini oltre il limite della singolarità? La tensione tra «universale» ed «singolare» non si pone tanto sul piano dell’autorappresentazione del poeta – è questo, tutto sommato, un aspetto parziale della poesia – ma piuttosto in relazione allo statuto espressivo del linguaggio poetico.

Il concreto tessuto di ogni poesia è il ritmo in quanto esperienza, percezione ed espressione – umana, dunque soggettiva – del movimento vitale. I versi leopardiani che esprimono il perdersi dell’individuo nell’indefinita pulsazione della realtà («e naufragar m’è dolce/ in questo mare»), sono ritmo di una concreta realtà percettiva: «senza questa fisica, sensoriale verità (…) non si dà poesia» (così G. Pontiggia, Poesia è ciò che non muta). Al di qua dei grandi autori, ogni essere umano possiede una voce poetica allo stesso modo in cui possiede una facoltà ritmica e musicale: come espressione fisica, ritmica e vocale del rapporto percettivo tra io e mondo. Quest’aspetto arcaico dell’espressione umana implica una soggettività fisicamente determinata e può essere indagato solo su un piano antropologico: come «ponte» che il singolo getta per superare la frattura tra io e mondo, e come tentativo di forzare il limite – linguistico, psicofisico, esperienziale – di cui ogni individuo è formato. Il grande merito del libro di Brunella Antomarini (La preistoria acustica della poesia, Aragno editore) è appunto quello di restituire la poesia al piano antropologico e di mettere così esplicitamente a frutto la lezione di Ernesto De Martino, secondo il quale ogni attività mitopoietica si dà come «mediazione originaria tra esistenza e storia».

Estratti di singolarità

Per rendere la percezione dell’esistenza (cioè di singoli fenomeni: questo mare, questa siepe, questo stato d’animo) la poesia deve abbandonare le convenzioni dei concetti astratti e riportare il linguaggio alla tenebra della singolarità, al non concettualizzabile. In questo senso si può trasferire alla poesia la formula applicata da Stéphane Gioanni, acuto studioso di letteratura tardoantica, ad un grande un produttore di labirintiche immagini in prosa, cioè lo scrittore Ennodio di Pavia (VI sec. d. C.): nell’immagine poetica «si crea il conflitto che oppone la parola alla sua intellegibilità».

La poesia non astrae, ma estrae dalla singolarità un ritmo che trascina con sé una totalità vitale: essa trascina il nesso non altrimenti sperimentabile tra oggetto e mondo dentro il cerchio fisico del singolo oggetto percepito. Straordinario documento di ciò sono, per fare un esempio, questi versi di Silvia Bre: «e per la quercia grande che m’invento/ s’allunga in belvedere una finestra/ via dal deserto, e l’ombra piove,/ come se fossi già quel che divento». Quest’immagine d’una strada che la luce notturna trasforma sotto gli occhi di chi la percorre, al ritmo dei suoi passi, coglie le cose nel loro divenire e le rende visibili come soglia, come limite in lotta col buio. Sono esattamente il buio e il silenzio ad interessarci qui, poiché il grande conflitto col limite delle cose, in poesia, non conosce l’armistizio o la via d’uscita della concettualizzazione, e dunque può finire solo nella morte, nel buio, nel silenzio. Lo esprimono perfettamente – secondo e ultimo esempio, ma molti altri ce ne sarebbero – questi versi di Angelo Scandurra, appartato poeta siciliano dalla grande forza visionaria: «La morte è accenno di sangue/ è come fare una commessa/ come spedire un dono; / (…)/ Eppure è viva, accesa,/ esorcizza, lacera/ la stoffa dei cieli,/ brucia ali agli uccelli/ fruga nei nostri desideri/ invidiosa e solenne. È un piccione viaggiatore/ recante messaggi che sconosce». Altro che rivelazione dell’essere, altro che universali! Forzare il limite della contingenza senza la scappatoia del concetto significa rinunciare al binomio particolare/universale – che affianca la cosa e la sua astrazione concettuale – per restare nella concreta dialettica che oppone la singola cosa al suo limite, cioè il divenire alla morte (fini osservazioni, su ciò, nel recente articolo di R. Gigliucci, Triste, contemporaneo e finale, apparso nella rivista «Oblio»).

Movimenti vitali

In questo senso la poesia ha molto più a che vedere con la danza che non con la filosofia: paragonando poesia e danza, Paul Valéry (Filosofia della danza) disse che il danzatore «gioca a trovare il limite estremo» poiché «entra in una sorta di vita allo stesso tempo stranamente instabile e stranamente regolata». I due poli dialettici dell’instabilità e della rigidità sono quelli che la danza condivide con la poesia poiché entrambe sono espressioni del ritmo vitale (su questo nesso, vedi ancora il già citato e ricchissimo G. Pontiggia, Poesia è ciò che non muta): ciò che con terminologia filosofica chiamiamo «empirico» è l’instabilità del movimento. Ciò che vorremo chiamare «universale» se fosse un concetto è non solo il cessare del movimento vitale, che la realtà ci impone di chiamare morte, ma anche l’irrigidirsi del movimento in schema, che la critica letteraria chiama forma. Il momento della morte è, nel linguaggio poetico, quello dell’ordine e della forma; il tessuto concreto della poesia è costituito dalla lotta tra flusso e forma, tra movimento e schema, molto più che dall’io del poeta.

Su questo punto va fatta un’ultima osservazione: la marginalità e la debolezza dell’io poetico sono centrali, nella storia della riflessione sulla poesia, almeno quanto la sua centralità e la sua forza. La nascita del flusso della poesia non è del tutto controllabile, e per questo Amelia Rosselli parlò di «parole (…) poste come per caso». Fu il dadaismo ad estremizzare ideologicamente il ruolo debole della volontà del poeta, ma la tematizzazione originaria della questione risiede nella theia mania platonica, che concepì il poeta come un puro ricettacolo dell’invasamento divino. Questo stesso stato di volontà «debole» del poeta portò Hölderlin a parlare di «condizione intermedia» dell’io poetico. Il cerchio rischierebbe qui di richiudersi sull’orfismo misticheggiante di Heidegger, se non fosse che abbiamo già sostituito agli dei e all’essere il buio, per restare fedeli all’idea boccacciana che la poesia esprima solo la danza della fortuna. È questo elemento a marginalizzare il ruolo dell’io lirico e a porlo in contatto primario col proprio limite, cioè col buio che esso trova dentro e oltre se stesso.