Quello che è accaduto e sta accadendo negli Stati Uniti, come conseguenza del brutale omicidio dell’afroamericano George Floyd, e più recentemente di Rayshard Brooks (e ancora prima di Breonna Taylor e altri neri) è un’amara prosecuzione di una storia millenaria in cui il potere abusa dei propri mezzi di coercizione nei confronti del cittadino, attraverso una forza intermediaria chiamata a reprimere il dissenso. Talvolta, come nel caso Usa, accanendosi senza ragione. Gian Maria Volonté nel 1970 in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri, nei panni del «Dottore», evocava, in un delirio di onnipotenza, un tratto inquietante che risuona sinistro di fronte ai noti fatti: «Ad altri spetta il compito di curare e di educare. A noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!». L’era tecnologica ci permette, per fortuna, di documentare molto più agevolmente abusi e soprusi e denunciarli. In passato ci si poteva basare solo sulle testimonianze dei presenti, difficilmente impugnabili di fronte a chi gestiva il potere. Non di rado la denuncia era affidata agli artisti che attraverso scritti, opere d’arte, canzoni fotografavano e tramandavano l’evento. Ecco una panoramica di canzoni che hanno segnato vari aspetti della repressione esercitata dal potere.
BILLIE HOLIDAY Strange Fruit
Uno dei primi brani ad essere drammaticamente esplicito sul razzismo che pervadeva gli Stati Uniti. Era il 1939 e il problema dei diritti civili non era tra le priorità. Anche se la segregazione e ogni tipo di abuso nei confronti della popolazione nera erano la normalità quasi ovunque. Il brano fu scritto da Abel Meeropol, sotto falso nome, in quanto membro del partito comunista americano. Billie Holiday ne fu l’interprete, per la prima volta in quell’anno, al Café Society di New York, l’unico che accettava una clientela integrata. A lungo ostracizzato divenne lentamente un inno contro le violenze razziste in America. Nel 2000 il Time lo dichiarò «Monumento musicale del secolo». La stessa rivista che 60 anni prima lo aveva bollato come «propaganda in musica». Lo strano frutto sono i neri impiccati agli alberi del Sud degli Stati Uniti: «Gli alberi del Sud danno uno strano frutto/Sangue sulle foglie e sangue alle radici/Neri corpi impiccati oscillano alla brezza del Sud. Uno strano frutto pende dai pioppi/Una scena bucolica del valoroso Sud, gli occhi strabuzzati e le bocche storte/Profumo di magnolie, dolce e fresco, poi improvviso l’odore di carne bruciata».
NINA SIMONE Mississippi Goddam
Nina Simone ha avuto una vita tribolata e instabile ma artisticamente è sempre stata tremendamente lucida e concreta, rischiando la carriera (a causa dei boicottaggi subiti negli States dall’industria discografica per il suo impegno per i diritti civili). Nel 1964 incide Mississippi Goddam, una cruda invettiva all’indomani dell’uccisione a Birmingham, in Alabama, in un attentato dinamitardo in una chiesa battista, di quattro ragazzine afroamericane. Il brano venne respinto da moltissime radio e spesso restituito alla casa discografica spezzato a metà. Le parole non lasciavano spazio a doppi sensi: «Picchettaggi/bambini sulle brande dell’ospedale da campo/e poi provano a dire che è un complotto comunista/tutto quel che voglio è uguaglianza/per mia sorella, per mio fratello, per la mia gente e per me». E ancora: «Tutta questa nazione è piena di menzogne e morirete tutti quanti, morirete come mosche/io non mi fido più di voi che continuate a dire: Vacci piano!». Nina Simone, tra i nomi di riferimento della battaglia per i diritti civili negli Usa, costretta a lasciare il paese, dichiarò che quando sentì la notizia la prima cosa che le venne in mente fu di uccidere qualcuno. Un’ora dopo aveva composto un classico.
SAM COOKE A Change Is Gonna Come
Un brano uscito solo dopo la sua morte, avvenuta in tragiche circostanze nel dicembre 1964, e diventato tra i più significativi per il movimento per i diritti civili. Ispirato da Blowin’ in the Wind di Bob Dylan e da uno sgradevole e umiliante «incidente» occorso a lui e alla sua band in Lousiana quando fu loro rifiutato l’ingresso all’Holiday Inn dopo un concerto, nonostante la prenotazione, per il colore della pelle. Spostatisi in altro motel trovarono ad attenderli la polizia che li arrestò per turbativa della quiete. «Ci sono stati momenti in ho pensato che non ce l’avrei fatta a lungo/Ma ora penso di poter resistere/Ed è passato tanto, ma tanto di quel tempo/Ma so che ci sarà un cambiamento, sì che ci sarà».
JIMMY CLIFF The Harder They Come
Nella cultura reggae la tematica dell’oppresione è ricorrente e le canzoni sul tema particolarmente numerose. Tra le più note, un brano epocale di Jimmy Cliff, uno dei grandi del sound giamaicano, anche titolo dell’omonimo film del 1973. «E continuo a combattere per quello che voglio/anche se so che quando sei morto non puoi più farlo/Preferisco essere un uomo libero nella tomba piuttosto che vivere come una marionetta o come uno schiavo».
JUNIOR MURVIN Police and Thieves
Registrata nel 1976 nello studio di uno dei re della musica reggae e dub, Lee «Scratch» Perry, a Kingston, Giamaica, è una canzone che descrive la situazione nel paese, funestato da continui scontri tra le gang di strada e la polizia che reagiva con estrema brutalità rendendo la vita difficile e insicura in tutto il paese.
«Tutti gli operatori di pace/si trasformano in ufficiali di guerra… Tutti i crimini commessi ogni giorno, nessuno prova a fermarli in alcun modo». Joe Strummer e Paul Simonon ascoltarono la canzone durante le rivolte del Carnevale di Notting Hill del 1976, a cui erano presenti e in cui Police and Thieves divenne una specie di inno. L’anno successivo la incisero in versione punk nell’album d’esordio dei Clash.
THE EQUALS Police on My back
Gli Equals sono stati tra i primi (e pochissimi, fino alla fine degli anni Settanta), gruppi multietnici inglesi. Eddy Grant, che ebbe successivamente successo come solista in ambito reggae-pop, scrisse questo contagioso pop soul nel 1967, in reazione a quanto avveniva in Sudafrica dove la repressione dell’apartheid raggiungeva livelli sempre più elevati. Il brano descrive la costante fuga, ogni giorno della settimana, di un ragazzo nero, inseguito dalla polizia che gli spara. E durante la corsa si chiede sconsolato «Cosa ho fatto?». Nel 1980 i Clash la riprenderanno nel monumentale Sandinista! in uno dei rari brani ancora influenzati dal punk dell’album, con Mick Jones alla voce.
THE CLASH The Guns of Brixton
Spesso criticati per un’eccessiva disinvoltura e superficialità nell’abbracciare cause senza troppi approfondimenti, è innegabile che i Clash abbiano lasciato una lunga striscia di canzoni molto significative dal punto di vista socio/politico che parlano di oppressione, razzismo, imperialismo, ingiustizie, disoccupazione e tanto altro. The Guns of Brixton (tra i pochi brani composti e cantati dal bassista Paul Simonon) è, nella sua ingenua immediatezza, tra i più significativi e noti. Negli anni Settanta la vita nel quartiere nero di Londra non era facile e anche piuttosto pericolosa. I Clash mettono in scena la storia di un migrante giamaicano (con riferimento all’Ivanhoe del film The Harder They Come, – citato nel testo – ossia Vincent Martin, criminale giamaicano definito il «Rude Boy originario») deciso a rispondere con le armi all’arrivo della polizia a casa.
THE RUTS S.U.S.
La favolosa punk band inglese, guidata dal compianto Malcolm Owen, incise la minacciosa S.U.S. nel 1979. Le Sus Laws erano leggi inglesi che conferivano alla polizia il potere di fermare, perquisire e fermare una «Sus-pect person» per il solo fatto di avere un atteggiamento che poteva insospettire. Soprattutto alla fine degli anni Settanta divennero motivo di arresti indiscriminati, perlopiù ai danni di immigrati non bianchi, causando numerose rivolte sollecitate da varie e palesi ingiustizie. «In fondo alla strada stavo aspettando un bus/Arriva questo poliziotto, mi danno il SUS/Hanno detto ‘Penso che tu sia nel nostro dossier. è meglio che vieni con noi per un po’/È meglio che vieni con noi e non fare storie. Ti abbiamo nel SUS».
MARVIN GAYE What’s Going on
Ispirato da una canzone composta dal componente dei Four Tops (che si rifiutarono di inciderla) Obie Benson, scioccato dalla brutalità della polizia nei confronti di chi manifestava contro la guerra in Vietnam, Marvin Gaye lasciò il mondo dorato delle «love songs» per abbracciare l’impegno sociale. What’s Going on dà il titolo all’album epocale del 1971 e nella canzone si chiede attonito cosa sta succedendo all’America del tempo con ragazzi mandati a morire in guerra mentre chi protesta viene represso con brutalità.
CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG Ohio
Il 4 maggio 1970 in Ohio una manifestazione contro l’allargamento della guerra dal Vietnam alla neutrale Cambogia (ad opera degli Usa e del Vietnam del Sud) fu brutalmente dispersa dalla Guarda Nazionale che sparò su una folla pacifica di studenti uccidendone quattro e ferendone nove. Neil Young scrisse immediatamente una canzone sull’evento, provata e incisa in pochi giorni dalla band e pubblicata poche settimane dopo (sul retro del 45 giri, un brano di Stephen Stills, altrettanto polemico contro la guerra, Find the Cost of Freedom). Un’interpretazione intensa, con l’ipnotico coro «Quattro morti in Ohio», destinata a diventare una delle canzoni di protesta più iconiche.
BRUCE SPRINGSTEEN American Skin (41 Shots)
Nel 1999, un migrante della Guinea, Madou Diallo, fu ucciso da quattro agenti della polizia newyorkese con 19 colpi di arma automatica (su 41 esplosi) mentre rientrava a casa, perché sospettato di essere un violentatore. In American Skin (41 Shots) (inizialmente registrata solo live, poi inserita in High Hopes) Bruce Springsteen, ripete «41 shots» (41 colpi), dedicando il brano alla tragica vicenda. Che viene citata in numerosi altri brani, dai Public Enemy a Wyclef Jean (con l’esplicita Diallo), da Erykah Badu agli Strokes (New York City Cops è ispirata a quell’omicidio).
SINEAD O’ CONNOR Black Boys on Mopeds
Colin Roach era un ventunenne inglese nero, morto per un colpo di pistola all’entrata di una stazione di polizia di Stoke Newington, già al centro di inchieste e proteste per numerosi atti di discriminazione razziale e arresti ingiustificati di persone nere. Il caso venne derubricato, contro ogni evidenza, come suicidio. La cantautrice irlandese dedicò al ragazzo l’intero album I Do not Want what I Haven’t Got e in particolare la canzone Black Boys on Mopeds. Colin viene omaggiato anche dagli Specials AKA nel brano Brightlights.
KENDRICK LAMAR Alright
Il brano del rapper dall’album To Pimp a Butterfly è considerato l’inno non ufficiale del movimento Black Lives Matter, spesso infatti il ritornello è stato cantato durante le manifestazioni: «Nigga, we gon’ be alright/Nigga, we gon’ be alright/We gon’ be alright/Do you hear me, do you feel me? We gon’ be alright». Brano potente, esplicito e con un video altrettanto efficace (poliziotti brutalissimi inclusi).
BLACK FLAG Police Story
Raccontano i ragazzi appartenenti alla prima scena hardcore punk statunitense che la polizia (specialmente quella di Los Angeles e New York) utilizzava i loro concerti per allenarsi allo scontro diretto contro le persone. Trattandosi in prevalenza di disadattati, spesso senza una casa, di famiglie allo sbando, le autorità non dovevano temere denunce o rivalse legali. In ogni caso la polizia di tutto il mondo è sempre stata brutale e repressiva nei confronti della scena punk. Non stupisce quindi il largo numero di canzoni in questo ambito che parlano del problema e si scagliano contro le forze dell’ordine. In rappresentanza di tutte, ecco una delle migliori espressioni dell’hardcore in assoluto, i californiani Black Flag, guidati dall’iconico Henry Rollins (che nella sua successiva carriera di attore interpreterà più volte anche il ruolo di un poliziotto) nell’album d’esordio Damaged del 1981. «La città di merda è percorsa dai maiali (poliziotti in slang, ndr) che portano via i diritti a tutti i ragazzi/Capisci che stiamo combattendo una guerra che non potremo vincere/Loro odiano noi, noi odiamo loro/Mi hanno colpito in testa con un manganello/Non faccio niente, non dico niente gli dico solo di andare a fanculo/Quei figli di puttana la pagheranno/Finisco in tribunale, ho commesso il mio crimine/Mettiti in fila, paga la cauzione/Capisci che stiamo combattendo una guerra che non potremo vincere».
BOB DYLAN Hurricane
La canzone che apre l’album Desire (1976) è dedicata al pugile Rubin «Hurricane» Carter condannato ingiustamente (arrestato nel 1966 e definitivamente scagionato nel 1988) per un triplice omicidio avvenuto a seguito di una sparatoria al Lafayette Bar il 17 giugno 1966, nel New Jersey. Grazie al pezzo media e pubblico si interessarono alla storia del pugile che aveva personalmente informato Bob Dylan della vicenda inviandogli la sua autobiografia The Sixteenth Round (1974). Verrà scarcerato nel 1985 quando si appurerà che l’accusa era «basata su motivazioni razziali». Dal canto suo Dylan nel 1964 aveva scritto The Lonesome Death of Hattie Carroll sull’uccisione dell’omonima donna afroamericana.
THE BEATLES Blackbird
Voce (Paul McCartney) e chitarra acustica, il pezzo, presente sul White Album, è tra le migliori composizioni uscite dalle penna dell’artista. Lo stesso McCartney ha spiegato che fu scritta per sostenere il movimento per i diritti civili negli Usa e in particolare per Rosa Parks, che il primo dicembre 1955 salì su un bus e si sedette nella parte riservata ai bianchi, rifiutando poi di spostarsi nella parte posteriore dell’automezzo, riservata ai neri. Durante i recenti tour di Paul alle spalle della band, sono state proiettate immagini di Martin Luther King, Rosa Parks e degli scontri con la polizia durante le manifestazioni di protesta.
PUBLIC ENEMY Fight the Power
Un classico della militanza hip hop. Commissionato da Spike Lee per il suo film Do the Right Thing (1989), il pezzo (con titolo e verso ripreso dall’omonimo brano degli Isley Brothers) fa a pezzi icone della cultura pop bianca Usa come Elvis e John Wayne. Emblematico il verso «Give us what we want/Gotta give us what we need» (dateci quello che vogliamo/quello di cui abbiamo bisogno») in cui viene messa in discussione la struttura di potere dominante e gli strumenti brutali di cui si serve. Il pezzo fu scritto da Chuck D mentre i Public Enemy (con Run-DMC e Derek B) erano in tour in Italia nell’88.
GIL SCOTT-HERON The Revolution Will not Be Televised
Un pezzo così rilevante da un punto di vista politico che ogni volta che si manifestano disordini e tensioni razziali negli Usa o altrove viene subito evocato. Scritto nel 1970 dal grande versificatore afroamericano, precursore per molti versi del rap, contiene un messaggio semplice e diretto: nessuno farà la rivoluzione per te, la rivoluzione non sarà trasmessa in televisione. «Perché non c’è nessuna rivoluzione da vedere, la vera rivoluzione nasce da dentro, è la testa delle persone che deve cambiare, e quello non si potrà mai vedere in tv».