Con quella faccia un po’ così, da enfant prodige dei telefilm anni Ottanta. Cinquantatre anni il 30 maggio, Tim Burgess non riesce proprio a star fermo. È stato tra i protagonisti del lockdown musicale con i suoi listening parties su Twitter, offrendo a migliaia di utenti l’occasione di (ri)scoprire il gusto di ascoltare un album per intero, scelta non scontata nell’era delle playlist. Ascolto integrale, attento, ripetuto. È quanto merita anche il suo I Love The New Sky, nuovo progetto solista pubblicato dall’etichetta Bella Union, a due anni dal precedente As I Was Now e a pochi mesi dal terzo libro di Tim, One Two Another. Una magnifica iperattività, la sua, tanto più che a differenza degli album precedenti — scritti con gli apporti di Kurt Wagner e Peter Gordon — questo lavoro è figlio della sua sola penna.

L’ALBUM conferma la vena quasi postmoderna del frontman dei Charlatans. I caratteristici puns dei suoi titoli — penso a quello del secondo libro, Tim Book Two — danno luogo a citazioni musicali incrociate, tanto esibite quanto subliminali. A partire dalla traccia di apertura, Empathy For The Devil, che sconfessa nel giro di cinque secondi ogni prevedibile riferimento agli Stones, evocando piuttosto i Cure di Boys Don’t Cry attraverso disegni ritmici e armonici.

NON È IL SOLO fil rouge a partire dal singolo apripista. Evidente è l’intenzione schiettamente melodica, subito ratificata da Sweetheart Mercury e da Sweet Old Sorry Me, dove McCartney incontra gli Steely Dan e i Boston Rag. Comme D’Habitude, altro false friend, chiama in causa Robert Wyatt più che il Sinatra di My Way, mentre Lucky Creatures spariglia le carte con una marziale ouverture di archi e percussioni che non lascia affatto presagire la successiva risoluzione pop. La tracklist scorre elargendo picchi di interesse per ogni singolo brano. Timothy è diversamente autoreferenziale, «catchy but not in your face» dice Burgess: attraente/orecchiabile ma non sfrontata. Così come Only Took A Year, allusione alla gestazione dell’album, ben più precoce dei precedenti (As I Was Now aveva richiesto quasi un decennio). Poi The Mall, celebrazione surreale dei non luoghi, altra intelligente accoppiata singolo-video, come Laurie, il cui ritornello riporta alla mente i Velvet Underground di Sunday Morning e Stephanie Says: «Una lettera d’amore per il futuro dal passato: una visione edificante del mondo, scritta in un momento in cui è difficile trovare positività».
L’album è un distillato di tutta l’estetica pop-rock classica. Non solo citazioni e omaggi, ma profonda assimilazione di un linguaggio musicale cui si accorda anche la produzione, memore di quelle anglo-americane degli anni Settanta. Voci mixate in primissimo piano, arrangiamenti stratificati, texture dense, pastose, tattili. Un approccio quasi postmoderno, si diceva, che accomuna I Love The New Sky all’umore generale di tutta l’opera di Burgess. Gli ingredienti ci sono tutti: eclettismo, nostalgia, indeterminazione, frammentazione. Mescolando stili e livelli narrativi, Tim continua il suo slalom attraverso i generi, ibridati e trasmutati.

L’INDIE e la psichedelia barrettiana, l’avant-jazz e l’elettronica, il Madchester e il britpop non si rincorrono più di album in album ma di traccia in traccia, quando non lungo le battute di uno stesso brano. Ma è un postmodernismo gioioso, in cui l’autorità non è più delegittimata ma omaggiata, e il nichilismo è depurato dall’ottimismo quasi anacronistico di questi brani e del loro autore. Attraenti, ma non sfrontati.