Tra un passaggio a Torino e un continuo a distanza (telefono, internet) si è riusciti a intervistare Antonio Rezza e Flavia Mastrella a proposito del loro libro, Clamori al vento, pubblicato da Il Saggiatore e uscito l’anno scorso – nella conversazione, non ci si è fatti sfuggire l’occasione di chiedere anche qualcosa sul loro prossimo spettacolo, Anelante…
Dal nostro primo incontro ricordo una vostra frase, a proposito del libro: «manuale su come ci si deve comportare nell’arte». Mi piacerebbe un approfondimento in merito.
Flavia: Non è proprio un manuale, è la storia di un’intesa, racconta di due vite disciplinate sperperate a combattere quello che non dà vitalità: attraverso l’irriverenza comportamentale e la realtà travisata, il rito viene percepito il più delle volte come spettacolo. Nel volume si racconta il transfert, il capovolgimento, il vizio di aberrare la prospettiva del quotidiano, che è fruibile all’istante durante le performance teatrali e nei film, grazie alla disposizione stratificata dei linguaggi. Le visioni con la voce ipnotica allarmata declamano la narrazione, corrodono il corpo sgretolando le cose in mille significati enfatizzati. L’abnormità e la normalità nel libro danno la densità agli argomenti che si articolano al nostro bioritmo.
Antonio: È venuto fuori un testo anti-moralista che però indica la direzione del pensiero assoluto, assai diffuso nelle menti libere, praticamente assente in quelle occupate. Tutti dovrebbero comportarsi come il libro dice perché è così che si fa, perché i più grandi lo hanno fatto e perché chi non lo fa non è abbastanza grande. La credibilità di un’intellettuale è direttamente proporzionale alla rinuncia dei guadagni che provengono dalla parte sbagliata.
Come è nata l’idea di «Clamori al vento?» Come avete organizzato il lavoro?
A: Mai le nostre volontà avrebbero potuto concepire un piano così destrutturante. È stato Andrea Gentile, direttore editoriale de Il Saggiatore, che ci ha convinto a ufficializzare le teorie d’assalto. Abbiamo riletto scritti e piagnistei vecchi vent’anni trovandoli attuali e preveggenti. Addirittura addolciti dalla patina del tempo. Attraverso la musicalità e il senso del ritmo successivo, siamo riusciti a riprodurre il pensiero di ieri con le architetture di oggi. Andrea poi ha operato un montaggio atemporale di tutti gli scritti consegnandoci un’opera apparentemente sconosciuta. Lì è iniziata la fase della riscrittura del testo che non ha intaccato il pensiero ottuso e ortodosso che ci contraddistingue. Abbiamo cercato di anticipare il rimpianto almeno nella pantomima.
F: Andrea Gentile ha avuto l’idea, sentiva la necessità di realizzare un libro con la nostra espressione più inedita, la scrittura a due teste; fantasticammo di inserire delle foto, ci chiese di raccogliere gli appunti più significativi, poi è venuto nel 2012, quando debuttava Fratto_X al teatro Vascello di Roma, a prendere gli scritti con Luca Formenton. In quel momento eravamo completamente inconsapevoli di quanto ci avrebbero fatto lavorare, e soprattutto di come la rivisitazione del nostro passato avrebbe accelerato lo sfaldamento del percorso espressivo iniziato con 7-14-21-28. Dopo vari tentativi di rimandare, cedemmo; evidentemente era il momento giusto per una trasformazione. Avevamo già pubblicato La noia incarnita, libro-intervista – con una sequenza fotografica fatta di ricordi – scritto insieme a Rossella Bonito Oliva; per questa nuova edizione pensammo di divulgare l’immagine del presente, ci siamo rivolti subito a un fotografo sensibile, Giulio Mazzi, che in occasione dell’antologia RezzaMastrella all’Elfo Puccini di Milano ha fotografato tutte le performance e i momenti che le precedono. Così a luglio del 2014 ci siamo trovati con le foto che rivelavano l’eleganza e la precisione raggiunta nelle performance grazie anche al nostro attuale gruppo di lavoro che merita di essere menzionato: Ivan Bellavista, in scena e in prova con Antonio; Massimo Camilli, assistente alla creazione; Mattia Vigo, disegnatore luci; Stefania Saltarelli, all’organizzazione; Andrea Zanarini, attrezzista e Patrizia Puddu, custode degli oggetti di scena. Il testo risultava lontano dal presente, non nei contenuti ma nella purezza e nel ritmo. A settembre consegnammo il tomo rinnovato, il lavoro di editing con Paola Sala e Marica Fasoli sul testo e la sequenza fotografica fu piacevole e fecondo.
Qual è il vostro rapporto con la scrittura?
F: Scrivo sempre per fissare le idee, ogni volta cerco di sbrogliare il magma indistinto dell’intuizione sfruttando la libertà espressiva e le molteplici sfumature della parola; è così che combatto il languore e la visione apocalittica che mi inseguono, scrivendo neutralizzo la banalità sottocutanea imposta dal circostante, torno a essere nuova nell’effimero che mi è tanto caro. Durante le infinite riletture di Clamori al vento ho notato in me una propensione a gettarmi a capofitto in ogni tipo di comunicazione. Con Antonio abbiamo scritto film, piani d’azione per interviste, comunicati brevi, teorizzazioni, ogni volta che riusciamo a sederci a un tavolo diamo corpo a qualche cosa; purtroppo succede sempre meno. Trovarci per affrontare un testo già scritto e sedimentato ha innescato una reazione inspiegabile, è stata una sfida scoprire la continuità tra prima e ora. Adesso, sfiniti da noi stessi, siano nel poi e il caos è totale.
A: La scrittura dà la possibilità di prevedere un effetto. Quando mi siedo e scrivo so dove andrò a sbattere, so già quello che dirò, anche adesso, perché le righe sono davanti a me, lente nel loro mutamento e quindi in evoluzione controllata. In un organismo sano la scrittura è più scorretta perché offre quelle certezze che la parola, mescolata all’affanno, non può garantire. Tutto dipende dalla posizione che occupiamo nello spazio. Un sedere su una sedia è molto più consapevole di due ginocchia che traballano. Spesso chi sta seduto ha qualcosa da nascondere e la nasconde proprio sotto il culo. Non dico che tutti gli scrittori prevedano l’effetto della loro opera, ma la maggior parte sì. E questo è un problema di scelleratezza posturale. Quando non scrivo e mi muovo inarrestabile alla ricerca di quelle parole che diventeranno un testo involontario, lo faccio con il corpo stanco, con l’affanno nella gola e, quindi, in condizioni di sofferenza organica, non posso supporre le reazioni di chi poi vedrà. Quando mi siedo quest’affanno sparisce e lascia spazio alle divagazioni della mente gerarca. Scrivere per me, ripeto nel mio caso, è un compromesso assai grave conoscendo il libero arbitrio dell’affanno. Un corpo stanco emette un altro suono.
Cito da Questo è, fra i testi più recenti inclusi nel libro, a firma di Antonio: «La ricerca dell’automatismo porta alla velocità di esecuzione annullando il controllo despota della mente che tutto fa e tutto barcolla. Questo a vantaggio della sonorità della parola. Non si dà spazio all’ipotesi ma carta bianca alla libera deriva. Che significa va’ dove non ti porta il senso, che non ha diritto a essere nell’esecuzione». Che cos’è per voi il ritmo? E questa libera deriva, questo andare contro il senso?
A: Il ritmo è dentro chi lo fa. Non esiste tecnica in assenza di pulsione. Quando ti accorgi che sei suono allo stato incontaminato sai quello che puoi diventare: una vocale allungata all’infinito; uno strumento nelle tue mani; un lamento che non ha confini. Strapparsi il controllo porta al ritmo incontestabile. Riguardo al senso non siamo mai andati contro quello corrente. Semmai è quello corrente che fugge dalla parte opposta. Se ci limitiamo all’arte, declassata a corollario del sapere, la vediamo affaccendarsi per conservare la sua posizione sociale. Spesso perché finanziata, parificata, didascalica. C’è chi la mattina telefona con la sinistra e il pomeriggio fa l’operetta con la destra. Non sappia mai la destra quello che ha fatto la mattina la sinistra. Se ne vergognerebbe assai. Non si può essere liberi il pomeriggio dopo aver fatto gli ostaggi quando il gallo canta. Il nostro grande male sono le persone di cultura che si piegano alla gestione del comando. Nel loro unico interesse. La morte ci libererà da questi mali, come scriveva Canetti: «il potere sta nel sopravvivere a chi muore.» E noi abbiamo fretta di vederli morire. Confidiamo nel buon senso di chi vogliamo morto.
«Il piede su due staffe» è un altro testo fra quelli più recenti nel libro, ma la firma è di Flavia. Cito: «La vastità della materia da esorcizzare mi orienta alla frammentazione». Mi piacerebbe approfondire. Perché «da esorcizzare»? Mi interessa l’uso del termine esorcismo, mi pare bello ma necessario di una spiegazione. Poi la frammentazione: la vedo come parte del vostro metodo. È possibile pensarla come condizione fondamentale per far risaltare da una parte l’importanza degli oggetti – mentali, di scena – e dall’altra per possibili contaminazioni?
F: Ho scelto il termine esorcizzare per dare in sintesi l’immagine del percorso di rigenerazione d’uso dei materiali. Lavorando sull’esistente distinguo le materie attraverso le qualità tecnologiche che riorganizzo come metafora; ritengo ogni cosa entità poetica, di un oggetto o di un frammento studio le facoltà didattiche, esamino il significato antropologico e la capacità mnemonica che scatena nell’osservatore. Avrei potuto utilizzare un termine alchemico, ma costringo la materia esistente, pratica nella sua funzione, a un’altra percezione del sé, come in un esorcismo aggredisco la cosa nel suo significato. Parlo di aggressione perché l’oggetto nel mio immaginario si umanizza. La frammentazione è lavorare sulle macerie, sempre nell’ottica che tutto è lecito per costruire un apparato comunicativo. Abbiamo iniziato nel 1988 con la contaminazione ma adesso, nell’era del plagio, questa pratica ha perso di significato. Lo scambio è sempre inquinato dal dubbio, non esistono gruppi di artisti che perseguono la stessa linea espressiva. Ci sono invece individualismo, megalomania, sospetto.
L’inserimento nel libro di brani originariamente scritti per vostri video e film mi ha dato l’impressione di leggere cose diverse, cioè che questi stessi brani in «Clamori al vento» abbiano un colore/tono altro. Mi viene da chiedere: che cos’è per voi la riscrittura?
F: Siamo abituati alla rielaborazione, al capovolgimento di senso, riscrivere è trasformare. In Troppolitani, nei piani d’azione delle interviste, le domande elaborate racchiudono il concetto da rappresentare; Antonio improvvisa quesiti che mettono in scena nella realtà il nostro intento narrativo supportato dalle reazioni dei passanti. Andiamo a perfezionare il significato in fase di montaggio selezionando dialoghi e gesti in base al nostro volere. Sono tre fasi fondamentali ricorrenti nel nostro incedere, una dinamica di scrittura, riscrittura e ritmo. La retorica resta attaccata alle parole scritte, per questo Clamori al vento a tratti è puramente teorico. La dinamica è la ricerca dello stupore, il ritmo è nella sequenza.
A: La riscrittura di un testo non dipende da una teorizzazione ma semplicemente dal fatto che se una cosa viene riscritta è perché non era scritta bene. Più semplice di come la si vuol rappresentare. Alcuni testi di venti anni fa non erano competitivi con il ritmo di adesso. Non si parla di contenuto, quello è un incidente di percorso, si parla di musicalità, di forma, di sonorità. Le cose dette sono le stesse ma gli strumenti linguistici odierni annientano il giudizio degli esordi, quando la forza è stemperata dalla rabbia a intermittenza. Il vero ritmo lo si raggiunge quando il rancore diventa integrale, 24 ore su 24. Aperto sempre, come le farmacie internazionali.
In questi mesi state lavorando a un nuovo spettacolo. Ce ne parlate?
A: Il nuovo spettacolo si intitolerà Anelante ed è un fremito compulsivo, una brama di possesso della carne violata, un subbuglio della propria, un penultimo sussulto di ciò che tra poco ci abbandona. A corpo fermo subentra il compromesso. La peggiore via di mezzo sarà accettare che le ginocchia vanno a fasi alterne. E far finta sia normale. Quel giorno però è ancora lontano, a tratti irraggiungibile. La religione impone le ginocchia a terra per bloccare la fuga, chi crede dovrebbe farlo in punta di piedi per essere pronto a scappare. La fede è una forma di artrosi a comando: quando il devoto si rialza avverte male alle giunture ma non scappa. Anzi ritorna. Il fedele è il miglior amico dell’uomo a sua insaputa. E a insaputa dell’altro. Se anche l’altro è credente si fanno coraggio a pacche di speranza. Difficile capire dove sta la colpa. Che non è il peccato perché la colpa è consapevole mentre il peccato è imposto dalla tradizione.
F: Anelante è il titolo della nuova performance, con cinque attori: lo spazio, ridotto a una barriera di separazione, racconta e contraddice il presente, è come un monitor abitato da corpi e pensieri configurati alla psicosi motoria. L’esplorazione delle membra si fa più audace. Si scava fino all’autosacrificio in una società che ci vuole contenitori di organi senza diritti e non più persone. La fase numerica che avevamo pensato di sviluppare in tre performance si è conclusa con due, in poco tempo la violenza infettiva e capillare della guerra e dell’assolutismo ha ridotto l’individuo alla legge della sopravvivenza. Anelante parla di decadenza, la parola e l’azione corale sono al centro dei nostri pensieri, era da tanto tempo che volevamo confrontarci con un’azione collettiva.

In ultimo voglio citarvi un filosofo francese, Jean Baudrillard: «Forse non c’è che una e una sola strategia fatale: la teoria. E senza dubbio l’unica differenza, tra una teoria banale e una teoria fatale, è che nell’una il soggetto si crede sempre più scaltro dell’oggetto, mentre nell’altra si suppone l’oggetto sempre più scaltro, più cinico, più geniale del soggetto, atteso ironicamente dietro l’angolo.» Si può dire che «Clamori al vento» sia la vostra teoria fatale?
F: Si sicuramente è fatale, ci ha costretto ad affrontare il tabù del raccontare, ci ha ridotto all’introspezione. Nella nostra poetica l’oggetto è dominante, siamo consumisti. Ora che la natura è tutelata a livello istituzionale, tutto sarà biodegradabile: bisognerà cercare altre tracce, altri significati, regole nuove, immaginare modalità di comunicazione inesplorate.
A: Spesso preferisco la pratica alla teoria poiché la seconda permette di ipotizzare una reazione, un ragionamento logico, un’associazione a fondo perduto. Chi teorizza sa dove colpire e questo lo mette al sicuro da imboscate successive. La pratica trafigge prima di tutto chi la fa, una sorta di suicidio melanconico. La teoria china la testa e riconosce la sua debolezza di fronte al gesto compiuto. Quasi sempre è l’opera finita a suggerirci la dottrina, sappiamo da che parte andiamo perché non volevamo andare da nessuna parte. E questo sancisce l’impossibilità di previsione, è il da farsi che si fa da sé attraverso il tempo illimitato che concediamo alla sedimentazione. Senza orpelli e agganci paralleli che accorciano il respiro e illudono il pensiero. È il solito trucco dello strapparsi l’opera dalle mani piuttosto che costruirla con il raziocinio e con la linguetta a mezza bocca a enfatizzare precisione. Su questo siamo irriducibili, chi scrive prevede, chi sputa il fiato soffoca. E chi sputa spesso è più virtuoso. In quanto alla superiorità dell’oggetto sul soggetto quello lo decide la storia, l’età, le intemperie, la resistenza delle cose agli oltraggi della mente, ai pregiudizi della cultura del presente. Siamo inferiori a qualunque architettura, anche alla più infame. E l’infamia è proprio nel non essere competitivi. A meno che uno non abbia il coraggio di ammettere che gli oggetti ci surclassano e accettare un confronto tra esseri minori, quelli che hanno coperto le ossa con la carne rinunciando ai piaceri e alle frivolezze dell’intonaco.