Jannis Kounellis l’aveva scritto pure sul suo passaporto che era un pittore e in ogni giorno della sua vita si è considerato un «costruttore di immagini», spinto a quel compito impervio dal destino. La bellezza, sosteneva nel suo illuminismo obliquo, è rivoluzionaria poiché indica la strada per un nuovo equilibrio, inventa simmetrie sconosciute, spazi sociali e paesaggi imprevisti. Dissemina tracce ad uso e consumo delle generazioni future capaci di sguardo libero, e nutre archetipi che confutano il tempo con la loro ciclica presenza, incuranti di cronologie e inventari.
Per lui, che si era lasciato alle spalle, giovanissimo, il Pireo natìo per avventurarsi nel mare oltrepassando i confini greci, in uno spostamento che era prima di tutto una ricollocazione di miti interiori, erano le cose semplici a sprigionare consonanze: il ferro, il carbone o gli stessi sacchi di juta che fin da bambino aveva visto accatastarsi nei porti mercantili. Erano oggetti che affondavano nella rievocazione di una passione antica, come l’amore per le prime locomotive e per la fuliggine che avvolgeva le sagome delle città ottocentesche, agli albori dell’epoca industriale.
Uomo appartenente al «mondo degli ombrosi», orgoglioso erede della severità caravaggesca e della carnalità (ma senza distrazioni cromatiche) di un Tiziano, Kounellis ha attraversato il Novecento e i primi due decenni del Duemila rimanendo fedele a un principio di drammaturgia laica: il saper imbastire una partitura esistenziale con gli appunti di un letterato. Un letterato che, con inclinazioni misteriche, custodiva l’abilità di creare «stanze», stilava trame di narrazioni, si dedicava alla ricomposizione certosina dei frammenti.

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La sua coerenza si può reperire oggi in quella impaginazione ordinata dell’esilio che lo rese, come ebbe a raccontare in una intervista degli anni ’80 con Bruno Corà, «poeta silente, pittore cieco e musicista sordo». Così, si può affermare che l’arte di Kounellis germogli dal kairos, il momento propizio per ricordare e per ricongiungere i frantumi della Storia. È questa l’epopea privata (non intima, perché »l’opera – diceva – è sempre dialettica nello spazio, sia esso una chiesa, una fabbrica o una galleria») a cui sempre risponderà l’artista, frugando nell’ignoto, «riparando» con le sue mani il romantico sentimento per la rovina e scandendo il ritmo con un linguaggio che si fa rete e radice. E se la Storia non è solo una scienza, ma anche una forma della rammemorazione (sulla scia di Benjamin), lui testardamente ha cercato una misura umana che fosse il metro per raccordare la discontinuità. «Penso che la mia più grande aspirazione, per usare un paradosso, sia di diventare un ago per cucire tutto insieme, ma prima vorrei aprirmi un varco, e poi ricucire tutto quanto di nuovo».

Ragionando intorno a queste premesse, la sua scomparsa (avvenuta nel 2017, a Roma) lasciava immaginare la difficoltà postuma di allestire una mostra che fosse altamente rappresentativa di un percorso dalla traiettoria così lucida. Presentare la celebre «logica Kounellis» in assenza del protagonista e delle sue intuizioni da archeologo versato nello scavo profondo ed emotivo, da scopritore di sedimenti. Ma la vasta retrospettiva nel settecentesco palazzo Ca’ Corner della Regina, sede veneziana della Fondazione Prada, ha dissolto le nubi. Settanta lavori, in un itinerario cronologico che va dal 1958 al 2016, costituiscono il corpo unitario di un montaggio delle attrazioni voluto da Germano Celant e nato con la collaborazione dell’Archivio Kounellis (visitabile fino al 24 novembre). Più che un’esposizione è un progetto, una cartografia che invita alla ricognizione di alcuni passaggi centrali della poetica di questo artista atipico, dall’arcaicità del frammento al fuoco purificatore dell’immaginario medievale fino alle solide impronte – notturne e un po’ lunari – di un’umanità in perenne dislocamento e in cerca di rifugio – letti, abiti, scarpe, porte sbarrate da cumuli di pietre e muri inzeppati di quotidianità vissuta e arrotolata, come le tante coperte militari rimaste senza proprietario.

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Girando fra i piani dell’edificio, ritroviamo ogni lemma del suo alfabeto visivo: la foresta di rose nere che aveva occupato l’Attico nel 1967 ha traslocato sulle acque lagunari, mentre i bilancini con la polvere di caffè accompagnano il visitatore rimodulando i suoi passi sulle scale. Anni fa, avevano già impregnato del loro aroma Venezia, vicino alle Zattere. Il peso della materia viene spogliato e rovesciato in un arredamento aereo che buca le prospettive barocche, mentre brani di musica interrompono le pareti trasformando in un’esperienza circolare il viaggio.

Jannis Kounellis amava molto Ungaretti: la lettura dei versi del Porto sepolto può aiutare nella decodificazione di quel suo linguaggio ermetico e classico insieme (il «tornare alla luce» del poeta per una nuova dispersione), scaturito dagli umori della terra e anche dalle proporzioni divine del Partenone. Il tempio che vedeva affacciandosi dalla sua finestra di casa, prima di partire per l’altrove.