A quasi venticinque anni dalla caduta del Muro di Berlino, l’Europa dell’Est rimane uno snodo possente di investimenti, una regione che ancora conserva la capacità di assorbire le delocalizzazioni industriali dei paesi della «vecchia» Europa e che in tempi recenti ha accolto un’ulteriore migrazione produttiva: quella dei servizi.
Va da sé che, in questo grande laboratorio economico, chi controlla il comparto bancario può vantare posizioni di supremazia. Ma chi lo controlla? Verrebbe da dire la Germania, in prima battuta. D’altronde è il paese che in termini di presenza industriale e interscambio commerciale vanta il più alto livello di penetrazione nell’Europa post-comunista. Sarebbe dunque logico supporre che le banche tedesche si siano messe sulla scia dell’ingente flusso di risorse incanalato da Berlino verso le capitali dell’Est, cercando di rastrellare quanto più possibile sul mercato del credito. Invece no.

Le vere leve tedesche

Sul fronte degli assetti bancari nella regione la prima potenza economica europea non è un peso massimo. Due i motivi. Il primo è che gli istituti tedeschi hanno sempre avuto una cultura germanocentrica, salvo dotarsi ultimamente di un respiro più globale. Chi poi ha tentato di sfondare a Est, come la bavarese BayernLB, è incappato in qualche batosta.
L’altra ragione è che la Germania, come sistema paese, privilegia altri canali di influenza economica nell’ex Europa comunista. Le leve sono l’energia (E.On ha diverse sussidiarie oltre la vecchia cortina) e la grande manifattura, come la Volkswagen, che produce un milione di veicoli all’anno tra Polonia, Repubblica ceca, Ungheria e Slovacchia, a impartire il ritmo.

Il caso Unicredit

Ma allora, chiarite le strategie dei tedeschi, chi domina la scena bancaria dell’Est? Il risiko regionale del credito vede la presenza di decine e decine di soggetti. Questo guazzabuglio è il frutto delle liberalizzazioni intraprese dai paesi dell’Est allo scopo di attirare capitali. La torta è stata divisa in mille fette e ognuno, da occidente, ha cercato di mangiarsene almeno una. Le ex democrazie popolari e ex repubbliche jugoslave sono state viste – e hanno voluto autorappresentarsi – come terre vergini. Tutto questo precipitarsi a Est ha dato vita a una competizione sfrenata, con equilibri in costante movimento e fortune alterne. Esserci, cercare uno spazio, anche pulviscolare, nel grande laboratorio: la parola d’ordine è stata questa.
Tra gli istituti più presenti nella regione, in ogni caso, ci sono quelli italiani. Unicredit e Intesa San Paolo, più la prima che la seconda, hanno dispiegato una politica di espansione che le ha portate a detenere rilevanti quote di mercato in diversi paesi. Unicredit, addirittura, è arrivata in certi frangenti a fare più profitti a Est che in Italia, grazie alle buone prestazioni delle controllate, dovute al fatto che le economie emergenti dell’Ue hanno retto la botta della crisi dopo un iniziale, brusca frenata.
Domanda lecita: la presenza a Est dei due nostri principali gruppi bancari sottende una velleità di influenza politica da parte dell’Italia? Fondamentalmente no. Se non altro perché al radicamento bancario, affiancato da quello persino più impressionante delle piccole e medie aziende, non corrisponde un effettivo gioco di sponda con le istituzioni pubbliche, che, parere quasi unanime nel mondo dell’impresa ma spesso sussurrato sottovoce, non assecondano come potrebbero il flusso di investimenti diretto a Est, perdendo l’occasione di giocare una partita (quasi) alla pari con i tedeschi, seppure con mezzi diversi.

Il sogno di Haider

Oltre l’antico crinale della guerra fredda anche le banche austriache, soprattutto Erste e Raiffeisen, hanno piazzato diverse bandierine. Ma pure qui non si delinea un disegno politico. L’allargamento a Est è più che altro dipeso dal fatto che per via di un’architettura finanziaria non così trasparente, almeno fino all’ingresso nell’Ue, l’industria bancaria austriaca era giunta a essere troppo grande rispetto alle dimensioni economiche e demografiche del paese. L’Est era a portata di vista e di mano: lì si sono investite somme considerevoli. Qualcuno ha vinto, altri hanno perso. È il caso di Hypo Alpe-Adria, banca della Carinzia.
L’istituto si svincolò dalla dimensione regionale e iniziò a investire massicciamente nei Balcani sul finire degli anni ’90. A caldeggiare la svolta fu anche il controverso Jorg Haider, a lungo governatore della Carinzia. Si racconta che vedesse in Hypo Alpe-Adria uno strumento con cui sostenere le proprie ambizioni nazionali. Ma una serie di scelte sbagliate e qualche pasticcio in Croazia e Montenegro, dove la banca sarebbe rispettivamente rimasta invischiata in giri di tangenti e presunti schemi di riciclaggio, hanno portato prima al profondo rosso e poi al salvataggio nel 2007 da parte di BayernLB, sfilatasi però dall’affare, rivelatosi fallimentare, dopo appena due anni. A metterci una pezza, con la nazionalizzazione, ci ha pensato Vienna.

Arriva Sberbank

C’è un’altra banca austriaca, con buona proiezione a Est (Serbia, Ungheria, Slovenia, Slovacchia, Repubblica ceca, Bosnia e Ucraina), scivolata in una crisi nera: Volksbank. A salvarla ci ha pensato Sberbank, prima banca russa, che l’ha rilevata nel 2011, facendo così irruzione sul mercato bancario dell’Est. L’anno scorso i russi hanno acquisito anche la turca Deniz Bank. Adesso, si mormora, studierebbero nuove, possibili acquisizioni.
L’arrivo di Sberbank sullo scacchiere finanziario dell’Est è una novità, perché è la prima banca pubblica a dare il via a una così tambureggiante strategia espansiva. Il fatto che a controllarla sia il Cremlino indicherebbe che dietro le recenti manovre ci sia una visione politica, in linea con la grandeur putiniana: tornare a competere anche lì da dove ci si era ritirati. Tra l’altro a Est, esclusi Polonia e baltici, i sentimenti anti-russi si sono attenuati e un’iniezione di rubli non è cosa da snobbare.
Non basta. L’avanzata di Sberbank si configura sulla carta come il primo tentativo di politica di potenza (di ritorno) espresso a Est con le banche. I due paesi che più hanno esercitato influenza nella regione, la Germania e gli Stati Uniti, hanno usato metodi diversi. Dei tedeschi s’è già detto. Gli americani, oggi meno attenti all’Est e sempre più concentrati sul Pacifico, hanno invece puntato su atlantismo e sicurezza.
In attesa di capire se la sfida di Sberbank è davvero seria o è guidata da pure logiche di profitto, si riscontrano altre offensive intraprese da banche di stato. È il caso delle turche Ziirat e Halk, che stanno alzando considerevolmente la posta nei Balcani. Anche in questa circostanza, alla stregua di Sberbank, si nota una possibile sovrapposizione tra affari e politica estera. Le iniziative degli istituti turchi sembrano un corollario della dottrina della «profondità strategica», coniata dal ministro degli esteri Ahmet Davutoglu e finalizzata a recuperare spazio di manovra nel vecchio perimetro ottomano. Teoria ambiziosa, ma limitata proprio dai fattori geografici. Ankara non manifesta l’intenzione di allargarsi oltre l’ex Jugoslavia.

La sfida di Orban

L’Ungheria fa parlare di sé anche sulle banche. Il primo ministro Viktor Orban, interprete di una forma di statalismo ancorata a destra, è convinto che le privatizzazioni operate negli anni ’90 abbiano compromesso la sovranità nazionale. Da qui l’esigenza di recuperare asset strategici, tramite l’intervento diretto dello stato o l’appoggio a gruppi industriali locali.
Sulle banche, dove i gruppi stranieri detengono quote maggioritarie di mercato, Orban vorrebbe arrivare a un compromesso fifty-fifty tra occidentali e ungheresi. Il recente piano governativo volto a unificare il parcellizzato comparto dei crediti cooperativi potrebbe creare un soggetto nuovo, capace di dare seguito alle direttive del primo ministro.
Questa voglia di ribaltare in parte l’esito delle privatizzazioni degli anni ’90 potrebbe fare breccia nel resto dell’Est? Non è scontato, visto il naufragio del modello sloveno, dove proprio le tre principali banche del paese, tutte controllate dallo stato, si sono rese protagoniste di una politica sconsiderata dei prestiti, che ha mandato il sistema a gambe all’aria e costretto il governo, incalzato da Bruxelles, a mettere all’asta diversi gioielli pubblici. Nella lista figura anche Nova Kreditna Banka di Maribor, secondo istituto nazionale. Chi se la comprerà?