I dispendiosi F35 sono stati finalmente impiegati per bombardare barche e gommoni di emigranti africani avvistati in mare e falciati poi i superstiti dalle mitragliatrici della nostra guardia costiera. Fermata l’invasione. Felici i populisti? Qualsiasi cosa voglia dire questa parola (postdemocratici, postnazifascisti…), no, non sono felici, perché a muoverli è il rancore che chiede di essere sempre alimentato con un nuovo oggetto, un inedito bersaglio da prendere di mira. Il risentimento non vuole il rimedio al male che critica.

ARBITRARIAMENTE e brutalmente aggiornata in contesto mediterraneo, questa è la tesi sostenuta da un saggista olandese sconosciuto (a noi): «L’odio contro gli ebrei, se l’occasione si presentasse, potrebbe essere sostituito con l’odio contro la Francia negroide… perché gli ebrei altro non sono che uno dei tanti pretesti per conferire al risentimento un oggetto materiale… gli individui… si rendono conto che la loro sete di risentimento non verrà placata dalla caccia agli ebrei, dal credere ai Protocolli dei Savi di Sion né dall’urlare contro il bolscevismo mondiale».
Lo sosteneva Menno ter Braak in un opuscolo pubblicato ottantatré anni fa e tradotto in italiano in un gioiello di edizione, Il nazionalsocialismo come dottrina del rancore (a cura di Gerrit Van Oord, introduzione di Léon Hanssen, Apeiron, pp. 64, euro 8,90, traduz. Van Oord, Enrico Paventi).

INTELLETTUALE PUBBLICO, «politico senza partito», critico letterario e cinematografico, pensatore originale, pubblica nel 1937 il suo libello per conto del Comitato di vigilanza degli intellettuali antinazionalsocialisti, da lui fondato insieme a un’altra delle figure di spicco dell’epoca, Eddy du Perron. Ter Braak scrive prima che il nazismo sia quello che la storia ci consegna. Al divenire del nazismo manca nel 1937 l’essenziale: ancora nessun pogrom contro gli ebrei ovvero Notte dei cristalli, non Anschluss dell’Austria né occupazione della Cecoslovacchia, nessun Patto d’acciaio né invasione della Polonia e guerra mondiale che ne segue, Oswiecim è una sonnolenta cittadina polacca ignara della sua futura trasformazione nel marchio universale dello sterminio, Auschwitz, e i nazisti stavano ancora discutendo se fosse il caso, d’accordo con la Francia, di deportare gli ebrei in Madagascar. «MA PER CARITÀ, signore, i nazionalsocialisti non sono che un gruppetto di poveri disgraziati!», confida un diplomatico a Menno ter Braak che, immergendosi a fondo nel presente, riesce a prefigurare il futuro. Non era l’unico: «Domani nei campi di concentramento sarà troppo tardi per pentirsi: la lotta deve iniziare quando c’è ancora tempo, prima della distruzione finale», scriveva Benjamin Fondane nel 1934, in anticipo di dieci anni alla sua eliminazione con la sorella nella sonnolenta cittadina polacca.
«Il risentimento è un autoavvelenamento dell’anima», aveva scritto nel 1912 il filosofo Max Scheler sulle orme critiche di Nietzsche, ma per Menno non era sufficiente «Il rancore è uno degli aspetti essenziali della nostra cultura, ne è parte integrante e vi è onnipotente». Il rancore nasce da una promessa non mantenuta e non mantenibile: esseri umani siete liberi e uguali! L’ha predicato il Cristianesimo, tutti uguali davanti a Dio, l’ha introiettato la democrazia, uguali davanti alla legge e al futuro. Questa promessa oggi ha dimensioni planetarie, miliardi di persone l’hanno ricevuta, come ci ricorda un po’ troppo astiosamente Mishra Pankaj (L’età della rabbia. Una storia del presente, Mondadori, 2018). Il rancore acquista il dono dell’ubiquità globale.

MENNO TER BRAAK, in un libro anch’esso del 1937, pubblicato nel 1945 in italiano, La democrazia di nessuno ossia del cristianesimo paradossale nell’Europa moderna (ediz. di Uomo, prefazione di Carlo Bo, di cui è nota solo una cospicua recensione di Francesco De Bartolomeis su Il Ponte, 1947, n.1) scriveva: «Se il Cristianesimo non avesse lasciato altre tracce che la sua dottrina, noi potremmo passare oltre con una risata omerica e contentarci di schivare odori di putrefazione; ma il Cristianesimo ha disciplinato i barbari, e la disciplina di generazioni di antenati non ce la possiamo scuotere di dosso alla maniera dell’anitra che si scuote di dosso l’acqua» e nel libello sul nazismo avverte che ci siamo dimenticati di osservare per primi noi stessi così non scorgiamo il risentimento presente anche nella bontà e nella verità. «Il nazionalsocialismo non è la contraddizione ma il compimento della democrazia e del socialismo, non è il loro depotenziamento ma ne è invece la loro perversione».

OGGI NOI NON POSSIAMO disinventare il nazifascismo, che si modifica in gesti e posture a cui diamo nomi sempre nuovi nel tentativo di ingabbiarlo. «La vera battaglia sulle regole minime della democrazia comincia solo adesso, nel momento in cui la democrazia al massimo grado si rivela nazionalsocialista (la comunità di popolo), e il ‘diritto per tutti’ si rivela come il diritto riconosciuto a tutti di odiare tutti gli altri, di detestarli e di metterli in un campo di concentramento».
In una tiepida giornata di maggio 1940, il 10, i panzer tedeschi entrano nei Paesi Bassi, il 14 gli stormi della Luftwaffe bombardano a tappeto Rotterdam. A L’Aja, Menno ter Braak si suicida aiutato dal fratello medico. Lo stesso giorno l’amico Eddy du Perron muore d’infarto. Il futuro non era loro più proponibile.