«Macerie del neoliberalismo»: così, nel suo ultimo libro (In the Ruins of Neoliberalism. The Rise of Antidemocratic Politics in the West, Columbia University Press, 2019), Wendy Brown definisce l’ascesa di movimenti e partiti di estrema destra negli Stati Uniti e in Europa e la politicizzazione dei valori della tradizione giudaico-cristiana che sostiene la guerra contro le donne, le minoranze sessuali, i migranti. La politica «sregolata, populista e brutta» della «destra dura» è per lei l’effetto – per molti versi imprevisto, se si confrontano le dottrine neoliberali e il «neoliberalismo reale» – di un discorso che radica la libertà del mercato in un sistema morale ostile a ogni pretesa di uguaglianza. Brown analizza perciò la «razionalità» del discorso neoliberale domandandosi in che modo essa ha alimentato la «cultura antidemocratica dal basso» che ha legittimato «forme antidemocratiche di potere statale dall’alto». Il suo problema è spiegare come una certa «produzione di soggettività» abbia permesso l’elezione di Donald Trump.

LA CRITICA DI BROWN muove da una idea della democrazia come processo teso alla realizzazione dell’uguaglianza politica. Questa concezione non nega le disuguaglianze che solcano la società capitalistica, ma indica la possibilità di contestarle avanzando nei confronti dello Stato rivendicazioni di uguaglianza. La democrazia coincide così con la costruzione della società come spazio in cui posizioni differenti e altrimenti separate condividono un «destino» e dove gli effetti dei poteri sociali che impediscono la realizzazione dell’uguaglianza politica – patriarcato, schiavitù, colonialismo – possono essere contrastati a partire da una comune aspirazione alla giustizia sociale.

Wendy Brown

La prospettiva di Brown è antitetica al neoliberalismo perché esso ha cercato di «distruggere concettualmente, normativamente e praticamente la società», di occultare l’azione dei poteri sociali attraverso l’appello alla responsabilità individuale e alle regole del mercato. In questo modo, esso ha affermato una concezione della libertà che si traduce nell’illimitata espressione del risentimento dell’uomo bianco della working e middle class che le politiche neoliberali avrebbero privato dei «privilegi» dispensati dallo Stato sociale novecentesco. La «destra dura» si fa strada quando lo smembramento della società legittima, in nome della libertà, il suprematismo dell’uomo bianco.

Smantellare la società significa «detronizzare la politica». Brown sviluppa la sua critica a partire da una concezione del «politico» che – con una presa di distanza da Schmitt e Marx tanto esplicita quanto analiticamente discutibile – definisce come il teatro in cui l’esistenza comune è pensata e governata, individuando i modi in cui la razionalità neoliberale ha spodestato quella democratica – che ha dato forma allo Stato sociale del XX secolo. Il neoliberalismo si rivela così una stratificazione di strategie discorsive volte a delegittimare ogni azione sovrana in favore dell’uguaglianza. In nessuna di queste strategie lo Stato è irrilevante, ma tutte ne sostengono l’autonomia negando allo stesso tempo la «priorità» della politica rispetto all’economia. Tutte, d’altra parte, rifiutano quella che Brown definisce «democrazia robusta», le rivendicazioni di carattere egualitario rivolte allo Stato e nelle quali si esprime una concezione espansiva del politico. L’esito imprevisto di questi discorsi sono politiche statuali sempre più strumentalizzate dal grande capitale, che impone la libertà del mercato in forme tecnocratiche e autoritarie esponendo la cittadinanza a mobilitazioni nazionalistiche.

IL DISCORSO NEOLIBERALE ha fatto strada alle politiche antidemocratiche anche attraverso il suo costante riferimento ai valori morali tradizionali. In quanto «spontaneo», l’ordine della famiglia patriarcale, della disciplina e dell’autorità che essa riproduce è omologo a quello del mercato e deve essere tutelato dalle ingerenze dello Stato pianificatore. Perché gli individui si conformino volontariamente a quest’ordine è necessario espandere la «sfera personale protetta» dall’intervento statuale.

L’effetto imprevisto di questo discorso sarebbe una politicizzazione dei valori tradizionali che si regge, tra le altre cose, sull’intervento attivo delle corti di giustizia. In particolare, il diritto di professare la propria fede in pubblico si traduce nella legittimazione dei discorsi d’odio contro le minoranze sessuali, i migranti, gli islamici, nella presenza delle congregazioni religiose all’interno delle istituzioni scolastiche e sociali, nell’attacco alle politiche dei diritti. Alle spalle di Trump ci sarebbe ancora il risentimento dell’uomo bianco della working e middle class contro le élite cosmopolite che sostengono il femminismo, le forme «non normative» della sessualità e della famiglia, un’educazione liberale e democratica.

L’astio della working e middle class verso quelle élite sembra reciproco, considerando il modo in cui Brown si allinea agli intellettuali liberal che – con scarsa considerazione dei dati offerti dalle analisi del voto – hanno accusato gli operai della cosiddetta rust belt di aver dato il via all’incubo trumpiano. Pur avendo il pregio di non trattare l’emergenza delle destre contemporanee come un ritorno del fascismo, ma come una nuova forma di razionalità politica, quella offerta da Brown finisce così per essere una critica solo speculativa e in fondo speculare del neoliberalismo e delle sue macerie: essa opera sul piano della razionalità e le oppone una diversa razionalità, quella democratica, costruita a partire dalla definizione di ciò che il neoliberalismo rifiuta. Inavvertitamente, questo approccio replica l’operazione neoliberale di cancellazione dei poteri sociali che determinano le condizioni politiche e istituzionali di riproduzione dell’ordine neoliberale. Mentre la democrazia si riduce a un’ideale, la sua invocazione comporta anche un’idealizzazione dello Stato come mediatore necessario tra gli individui e la giustizia sociale che non dice come invertire la rotta stabilita dalla sua soggezione alla riproduzione del capitale e dalla sua ulteriore perdita di autonomia nel contesto globale. La forma speculativa della critica di Brown impedisce poi di considerare l’esistenza di processi di soggettivazione che non sono esclusivamente prodotti dalla razionalità neoliberale.

AL DI LÀ di un’unica menzione di Black Lives Matter e Occupy Wall Street non c’è traccia, nel suo libro, delle lotte per il salario minimo di 15 dollari, delle mobilitazioni femministe contro Trump e contro la penalizzazione dell’aborto a livello statale, degli scioperi delle insegnanti, delle proteste dei migranti e antirazziste contro le deportazioni. Negli ultimi anni, queste lotte hanno reso possibile una politicizzazione del sociale che non coincide con la democratica configurazione di un «destino comune» tra soggetti diversi, ma con l’affermazione di linee di antagonismo che attraversano la società neoliberale e non possono essere ridotte alla contrapposizione intellettualistica tra masse antidemocratiche ed élite liberal globali. Siccome non riconosce quelle linee di antagonismo, Brown considera la «destra dura» come l’unica ribellione in atto contro il discorso neoliberale e chiude il suo libro domandandosi come può la sinistra raggiungere i «resti affettivi» mobilitati dalla destra – l’attaccamento alla nazione, alla famiglia, alla proprietà e alla bianchezza – e trasformarli. La sua critica delle macerie del neoliberalismo, alla fine, resta intrappolata nella logica delle razionalità entro cui si muove.