A che serve chiedersi a chi porti voti l’insurrezione dei neri a Charlotte? Inutile, cinico e sbagliato, chiederselo, specie se il sottinteso evidente è che Hillary dovrebbe adesso farsi più dura, prendere le parti degli agenti e non lasciare all’avversario la carta della «sicurezza».

Non fare, insomma, come ha fatto – e come ha fatto Barack Obama – dopo gli ultimi attentati di New York, tenendo una linea considerata soft e debole (l’unica ragionevole!).

Certo, siamo a poche settimane dalle presidenziali.

E tutto ciò che è «disordine», tutto ciò che suscita «paura», tutto ciò che può essere ed è utilizzato e strumentalizzato in quella chiave, per giocare sporco, dovrebbe favorire la destra, anzi sembra fatto apposta per spingere Trump verso il traguardo della vittoria, che siano gli africani americani che feriscono i poliziotti o che siano gli ordigni casarecci di uno squilibrato islamico che seminano il panico a NYC e dintorni.

Però non saltiamo alle conclusioni, specie se sono palesemente sbagliate. Tanto per restare al tema: se i bianchi arrabbiati che votano Trump hanno ora altre buoni pretesti offerti dalla cronaca per andare alle urne e premiare The Donald – e chissà quanti altri che non lo dicono ma faranno lo stesso – è altrettanto chiaro che l’elettorato nero risponderà positivamente, a maggior ragione, alla battuta non tanto scherzosa del «loro» presidente: se non voteranno Hillary, o meglio, se non andranno alle urne e non voteranno per la candidata democratica, per Barack Obama sarà un «personal insult». E in alcuni stati in bilico il voto nero farà la differenza.

I commentatori, specie nostrani, farebbero bene invece a porre e porsi qualche domanda più di fondo, prima di immaginare un Partito democratico che, per battere Trump, dovrebbe inseguirlo sul suo terreno.

[do action=”citazione”]L’8 novembre è un referendum tra un’America che, sulla scia di Obama, investe nella sua «diversity» e, al contrario, un’America del tutti contro tutti[/do]

A questo punto, infatti, è evidente a tutti la posta in palio l’8 novembre. È un referendum, che attende gli elettori, tra un’America che valorizzi e tuteli le ragioni dello stare insieme e che, sulla scia di Obama, investa nella sua «diversity» e, al contrario, un’America del tutti contro tutti, con la componente bianca presuntuosamente e inutilmente candidata a riprendersi la centralità e l’egemonia che sta via via perdendo.

[do action=”citazione”]L’America oggi è più che mai lo specchio del mondo. Nella sua demografia c’è il puzzle di tutte le culture, le etnie, le religioni presenti nel pianeta.[/do]

Com’è lontana l’America solo in bianco e nero, della maggioranza bianca e della minoranza nera. La presidenza Obama, questo ha rappresentato, non un nero del ghetto ma il figlio di un immigrato dal Kenya, che diventa presidente di una nazione multicolore, multietnica, multireligiosa. E ha sintonizzato la sua politica internazionale con questa incredibile, rapida, profonda trasformazione demografica del suo paese, in concomitanza con la globalizzione.

Sulla nuova demografia ha cercato di ridare forza alla democrazia, in casa e fuori. Non c’è riuscito? Avrebbe potuto fare di più? Avrebbe potuto fare di più specie per i neri? Ha fatto moltissimo per i neri, invece, cercando di essere non il presidente africano americano, ma il presidente nero di tutti gli americani. Non è stato capito?

Si scriveranno libri su questa presidenza «di rottura», ma intanto l’America potrebbe reagire eleggendo un presidente che capovolge quella visione, quel percorso. Se l’America non riesce a contenere in sé e a mettere in connessione tra loro le parti che la compongono, e che sono in continuo cambiamento, rischia l’implosione.

È qui il problema della «sicurezza nazionale». È davvero al suo interno, non all’esterno, la «national security». Il rischio è che sul terreno americano trovino spazio e sviluppo gli stessi conflitti che attraversano il mondo. La scommessa del realista Obama è che solo un’America inclusiva, aperta, davvero «multi» può essere la superpotenza solida al suo interno, che ha i titoli per «dare la linea» e fare qualcosa per contribuire alla pace nel mondo. Come può essere il pacificatore del mondo un paese che ha cento Gaza in casa?

In questi giorni, la National Rifle Association (Nra), la lobby della armi da fuoco che ha cinque milioni di membri, manda in onda nelle zone rurali bianche degli stati in bilico un video shoccante che ritrae una donna nel sonno che s’accorge della presenza di un intruso in casa e si precipita al telefono, ma ci vorranno undici minuti, dice una voce, perché rispondano al suo allarme. Poi la scena classica delle auto della polizia, ambulanze, le luci nella notte la casa della vittima dopo il delitto. Meglio munirsi di pistola che lasciare a Hillary il potere di far ammazzare chissà quante donne nella notte. Cinque milioni per questi spot, dei quindici stanziati per ora dalla Nra per sostenere Trump di qui a novembre.

Come si fa a non connettere quest’offensiva propagandistica della Nra con quella in atto da parte di Trump nei confronti delle minoranze, degli immigrati, dei neri? Non è più questione, per i democratici e la loro candidata, di competere o meno con Trump sul terreno della «paura» ma di contrastarlo duramente e sistematicamente, perché non si farebbe altro che alimentare proprio l’atmosfera che favorisce la sua ascesa. E portare alla sua vittoria.