La decisione d’inammissibilità del referendum sull’eutanasia ha lasciato molti sconcertati. Tante persone – ma anche una sarebbe troppo – continuano a soffrire pene indicibili senza poter decidere in autonomia sulla fine della propria vita. Intanto, il Parlamento stenta penosamente ad approvare una legge in materia, nonostante la stessa Corte costituzionale la reclami da oltre tre anni.

Perché, allora, la Consulta ha ritenuto inammissibile il referendum? Davvero con la sua decisione si è appiattita sulle tesi dei cattolici pro-life? Per quanto siano più che comprensibili le preoccupazioni di chi vede in questa pronuncia il rischio, se non di un’inversione di rotta, almeno di un arretramento rispetto alle aperture mostrate dalla stessa Consulta nel caso Cappato/Antoniani, può comunque essere utile ragionare, in attesa del deposito delle motivazioni, sui possibili motivi alla base della sentenza, nell’ottica di scongiurare l’indebolimento delle ragioni a favore dell’eutanasia.

A tal fine, occorre considerare che, nel nostro ordinamento, due sono le norme rilevanti in materia: l’art. 579 cod. pen. sull’omicidio del consenziente e l’art. 580 cod. pen. sull’istigazione e l’aiuto al suicidio.
Il referendum verteva sul primo, per far sì che, in esito all’auspicata vittoria dei Sì, la norma prevedesse la non punibilità dell’omicidio del consenziente, con la cautela che sarebbe stato sempre da ritenersi invalido il consenso prestato da una persona (1) minore di diciotto anni o (2) inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti o (3) il cui consenso fosse stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione o carpito con l’inganno. In tutte queste ipotesi si sarebbe, dunque, applicata la norma sull’omicidio volontario. Negli altri casi – a condizione, per consolidata giurisprudenza, che il consenso fosse stato prestato in modo serio, esplicito e non equivoco e che risultasse perdurante sino al momento dell’omicidio – l’omicidio del consenziente non sarebbe stato più punibile.

Ciò, tuttavia, avrebbe indirettamente provocato tensione con quanto sancito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019 sul caso Cappato/Antoniani. In quella decisione, relativa all’art. 580 cod. pen., il giudice delle leggi aveva sancito la non punibilità di chi agevola una persona nel proprio proposito di suicidio (una condotta meno grave dell’omicidio del consenziente) a condizione che: (a) tale proposito sia autonomamente e liberamente formato; (b) la persona che intende suicidarsi sia (b1) tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, (b2) affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche da lei ritenute intollerabili, (b3) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; (c) le condizioni della persona che ha espresso il proposito di suicidio e le modalità di esecuzione del medesimo siano state (c1) oggetto di un previo parere del comitato etico territorialmente competente e (c2) verificate da una struttura pubblica del Ssn.

Di qui il problema: come ammettere che le cautele ritenute costituzionalmente necessarie per la meno grave condotta dell’aiuto al suicidio non dovessero valere anche per la più grave condotta dell’omicidio del consenziente?
Secondo i promotori del referendum, per risolvere il problema sarebbe stato sufficiente applicare per analogia la sentenza n. 242 del 2019 anche a tutti i futuri casi di omicidio del consenziente (oltre che acquisirne il consenso nelle forme e con le modalità previste dalla legge n. 219 del 2017). Non era, però, una strada facilmente percorribile. In primo luogo, perché applicare in via analogica le sentenze è tutt’altro che scontato: diversamente dalle leggi, che hanno portata generale e astratta, le sentenze riguardano sempre casi particolari e concreti, ciascuno dei quali tende a fare storia a sé. In secondo luogo, perché la normativa risultante dall’eventuale vittoria dei Sì avrebbe sancito la non punibilità di un comportamento – vale a dire, avrebbe stabilito una libertà – che avrebbe poi dovuto essere compresso attraverso l’applicazione analogica della norma ricavata dalla sentenza n. 242 del 2019: cosa vietata dall’art. 25, co. 2, Cost., che esclude l’estendibilità in via analogica della norma penale svantaggiosa per il reo.

Quali, adesso, le conseguenze sul futuro dell’eutanasia in Italia? Dal punto di vista giuridico, va tenuto fermo il punto che è come se nulla fosse accaduto. Permangono intatte l’urgenza e la necessità che il Parlamento approvi una legge e che tale legge consenta di causare o aiutare la morte del consenziente alle condizioni già sancite dalla Corte.

Dal punto di vista politico, è facile immaginare che i pro-life a qualsiasi costo (e sulla pelle degli altri) tenteranno di cogliere l’occasione per ritornare anche su quanto già sancito dal giudice delle leggi. Se ciò accadrà, con l’eventuale approvazione di una legge più punitiva di quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019, spetterà alla Corte difendere la propria giurisprudenza, sancendone l’incostituzionalità.
In ogni caso, sarebbe stato forse preferibile pensare per tempo a tutte le implicazioni del quesito referendario ed evitare di offrire ai nemici dell’eutanasia un’occasione di rivalsa.