C’è un prima e un dopo nella vita di Alain Delambre. Il prima sono diciassette anni passati a «dare perle ai porci», come amavano definire il loro lavoro i quadri dell’azienda di bigiotteria in cui era impiegato. Diciassette anni trascorsi come direttore delle risorse umane, «mi occupavo del personale, della formazione, controllavo gli stipendi, ero il rappresentante della direzione nel comitato aziendale». Il dopo è segnato dall’acquisizione della società in cui lavora da parte di un’azienda rivale del Belgio e dall’inizio dei tagli e dei licenziamenti. «La notizia dell’acquisto è stata data il 4 marzo. La prima ondata di licenziamenti è cominciata sei settimane dopo, io ho fatto parte della seconda».

Così, alle soglie dei sessant’anni, quest’uomo che adorava «presentarsi bene» ed essere impeccabile in ufficio, «avevo quattro completi e una caterva di camicie e cravatte, mia moglie diceva che ero un vecchio galletto», si trova improvvisamente per strada. Ha perso il suo lavoro, la possibilità di arrivare alla pensione, il suo stesso status sociale. È troppo vecchio per trovare una nuova occupazione, troppo giovane per smettere di lavorare. Per mesi cerca qualcosa, ma senza successo, per finire per accontentarsi di un posto da magazziniere notturno in un deposito di prodotti farmaceutici. È un lavoro faticoso, umiliante, dove è soggetto alle vessazioni continue di un «padroncino».

Poi, quando tutto sembra perduto, a cominciare dalle speranze, davanti a Delambre apparirà una sorta di miraggio: una potente società petrolifera ha lanciato una selezione per reclutare un quadro per il proprio ufficio del personale. Ma non si tratta di superare dei test o fare una buona impressione durante un colloquio: i candidati dovranno dimostrare il loro sangue freddo in una situazione estrema, tanto estreme sono le condizioni in cui dovrà lavorare chi verrà assunto. «Pianificare i licenziamenti non è mica una cosa facile. Ma la cosa più difficile è organizzarli. Quello sì che è terribilmente complicato! Ci vuole il know-how, ci vuole forza di volontà. Ci si deve negoziare con quegli stronzi. E per quello c’è bisogno di gente in gamba. C’è bisogno di soldati, di veri fantaccini del capitalismo». L’esame davvero molto speciale che dovranno sostenere i candidati non è altro che la simulazione di un atto violento: «Partecipazione al gioco di ruolo: sequestro di persona sul posto di lavoro», c’è scritto nella busta che Delambre riceve in vista della prova.

Da quel momento, nell’uomo che vede in questa occasione una seconda chance di quelle che la vita non sempre è disposta ad offrirti, scatterà qualcosa. Prima studierà tutti gli altri candidati-rivali, anche ricorrendo ai servizi di un’agenzia investigativa, per cercare i loro punti deboli. Quindi si preparerà in ogni modo alla prova, documentandosi sulla cronaca nera come sull’uso delle armi. Alla fine, dopo aver investito in questa drammatica selezione i risparmi residui, Delorme si trasformerà in una sorta di macchina da guerra, pronto a giocarsi il tutto per tutto.

Con l’aiuto di Charles, il clochard che è l’unico vero amico che gli resta, e quello inconsapevole di sua moglie, travolta dalla vicenda, Delorme lancerà la sua sfida, deciso a riconquistare ciò che il «lavoro» gli ha tolto: oltre al suo benessere, la sua stessa dignità di essere umano. Alla fine, in un crescendo drammatico fatto di rapimenti, inseguimenti in auto per le strade di Parigi, sparatorie e ricatti, riuscirà a mettere le mani sui fondi neri che l’azienda petrolifera utilizza per oliare i meccanismi della burocrazia e della politica. Ripagherà gli squali del mercato con la loro stessa moneta. «Funziona così il successo. Come una collana. Basta disfare il nodo e tutto si sfila. Anche il fallimento funziona così, lo so bene. Per risalire la corrente ci vuole un’energia del diavolo. O bisogna essere pronti a morire. Io posso contare su entrambe le cose».

Con Lavoro a mano armata (Fazi, pp. 447, euro 16,50), accolto nel 2010 dalla critica francese come un «vero capolavoro», Pierre Lemaitre descrive, ispirandosi ad una vicenda reale avvenuta nel 2005 a France Télévision, il volto più oscuro del mondo imprenditoriale. Con un incedere via via sempre più drammatico, racconta la discesa agli inferi del nuovo capitalismo in un romanzo che sembra stendere una sorta di ponte ideale tra i personaggi miserabili descritti da Céline in Viaggio al termine della notte e gli eroi metropolitani dei polizieschi politici di Didier Daeninckx.

Perché per Lemaitre, parigino, classe 1951, innamorato di James Ellroy e Bret Easton Ellis, come della grande epica nazionale di Alexandre Dumas, il noir è prima di tutto uno strumento per testimoniare in modo irriducibile e a tratti disperato del malessere e delle ferite inferte ai più deboli, alle vittime, oggi della crisi economica come ieri della segregazione urbana nelle banlieue. Un percorso testardamente inseguito attraverso un pugno di polar decisamente spiazzanti, che ne hanno fatto in Francia un autore di culto, considerato alla stregua di un umanista del romanzo poliziesco: da Travail soigné a Robe de marié a L’abito da sposa (Fazi), fino ad Alex (Mondadori) e Sacrifice.

Una straordinaria capacità narrativa, scandita da una scrittura di stampo cinematografico e da quella sorta di «realismo noir» che rappresenta una delle sue maggiori caratteristiche, che hanno valso nel 2013 a Pierre Lemaitre la conquista del prestigioso Prix Goncourt, paradossalmente non con un giallo, ma con Arrivederci lassù, una storia bizzarra che ruota intorno alla celebrazione degli eroi della «Grande guerra» iniziata fin dal 1919. Come ha spiegato il critico Bernard Pivot, membro della giuria, «un riconoscimento al nuovo romanzo popolare», a quella letteratura che si mescola senza timori con la realtà di cui Lemaitre è un indiscusso maestro.