Le donne di Essaouira girano velate per i vicoli della medina, avvolte dal vento marino denso di salsedine. A Chefchaouen – la città azzurra del Rif – arrivano le contadine berbere per il mercato settimanale: il cappello di paglia non basta per proteggere il loro volto dai raggi sole, dalle fatiche della vita. Un tessuto a righe, i cui colori non sono mai casuali, è avvolto sopra la gonna. Le donne ne sollevano i lembi per portare frutta e verdura.

NEL SUQ DI BOUMIA, sul Medio Atlante, Leila Alaoui (Parigi 1982 – Ouagadougou, Burkina Faso 2016) fotografa un venditore d’acqua, mentre a Khamlia – dove la sabbia dorata è quella del Sahara – ritrae una sposa con la collana d’ambra e il volto completamento nascosto dal tessuto rosso.

LA FOTOGRAFA e videoartista franco-marocchina decide di raccontare il Marocco alla ricerca di un’identità che è anche la sua. Con uno studio portatile (come prima di lei Irving Penn e, in tempi più recenti, Phyllis Galembo) gira per il paese ispirata dal viaggio americano di Robert Frank, fermandosi per strada a parlare con le persone che ritrae nella serie Les Marocains. Questo rapporto privilegiato, basato sull’empatia e su un sentimento di grande rispetto per l’altro, è enfatizzato dall’isolamento dei soggetti all’interno di un fondo nero, che annulla possibili distrazioni.

GLI SGUARDI convergono sulla bellezza di questi personaggi anonimi colti nella loro spontaneità, senza trucchi del mestiere. Lo stesso avviene quando la fotografa, lungo le coste del Marocco, incontra i migranti subsahariani di cui ascolta le drammatiche storie evidenti in quelle loro cicatrici esterne, mai comparabili con quelle interne, protagonisti del progetto Crossings (2013). Le capita anche, come in Natreen (2013), di intercettare lo sguardo antico – lontanissimo – della bambina siriana in un campo profughi libanese in cui è riflessa lei stessa.

«Leila aveva studiato sociologia e antropologia alla City University of New York, perciò anche il suo lavoro di fotografa era indirizzato verso la conoscenza delle realtà sociali», racconta la mamma Christine, presidente della Fondation Leila Alaoui, in occasione della mostra Je te Pardonne (Io ti perdono) organizzata dalla galleria Continua di San Gimignano (fino al 23 aprile), che segue la tappa francese di Le Moulins (2016).

Souk de Boumia, Moyen-Atlas (Les Marocains), 2011 (Courtesy Fondation Leila Alaoui & GALLERIA CONTINUA)
[object Object],, 2011

«ANTROPOLOGIA dell’immagine: penso che sia questa la definizione per il suo lavoro – continua -. Fotografava solo se aveva un progetto, allora andava sul posto e trascorreva molto tempo con le persone, ci viveva insieme. La fotografia faceva parte del percorso. Non sono un’artista, precisava. Sono solo una donna araba musulmana con una macchina fotografica. È sempre stata modesta. Mio marito è marocchino di Fes. Io sono francese. Ci siamo incontrati a New York quando eravamo studenti. Nel 1977 è nata la nostra prima figlia Yasmine, anche lei artista. Poi ci trasferimmo a Parigi dove abbiamo vissuto per qualche anno. Lì sono nati Leila e Suleiman, poi quando Leila aveva 5 anni decidemmo di andare a vivere in Marocco, optando per Marrakech: ci piaceva molto quella città. Per tutta la vita, Leila ha cercato una sua identità. Quando era in Marocco la gente le diceva che era francese e quando andava in Francia, che era marocchina. Ha trovato la sua identità solo quando è andata in America per studiare. Ma continuava a porsi domande. Era musulmana perché in Marocco, secondo la legge, se un padre è musulmano anche il figlio lo è di nascita. Mio marito è credente ma non praticante. È un uomo molto liberale. Io mi sono convertita all’Islam solo pochi mesi fa, per potermi far seppellire accanto a mia figlia, nel cimitero Al Imam Souhaili di Marrakech. Pensavo che un giorno sarei stata sepolta nel cimitero parigino di Père-Lachaise, insieme ai miei genitori. Ma la vita è strana e, certe volte, ha sviluppi inaspettati. Leila ha avuto un’infanzia felice, una vita felice. È cresciuta frequentando i nostri amici, tra cui alcuni famosi come Yves Saint Laurent, ma non se ne curava. Anche poco prima della sua morte, a casa nostra c’era Paloma Picasso e io la stimolavo a parlare con lei. Ma non le interessava affatto, piuttosto preferiva mettersi a parlare con il giardiniere. Ci ha lasciati troppo presto, ma ha avuto certamente una vita piena. Non ha mai avuto paura, neanche quando si trovava in situazioni a rischio. ’Sai cosa ho fatto ieri?’, mi diceva sempre il giorno dopo».

C’è rassegnazione, ma anche tanta tristezza, nelle parole di questa madre che ha perso la figlia un anno fa. Leila Alaoui stava realizzando per Amnesty International (in passato aveva collaborato con altre importanti Ong come il Danish Refugee Council, Search for Common Ground e Hcr) un reportage sulla condizione femminile in Burkina Faso, quando è rimasta vittima dell’attentato terroristico del 15 gennaio 2016 al caffè Le Cappuccino di Ouagadougou. Tre giorni dopo, nonostante un lungo intervento per salvarle la vita, è deceduta in ospedale per arresto cardiaco.

«È STATO DURO, non ci aspettavamo quello che è successo. Solo quando sono arrivato lì mi sono reso conto di quanto fosse seria la situazione. C’era un caos totale e per via del coprifuoco non sono potuto stare con lei in ospedale», racconta il fratello. Suleiman Alaoui si sta occupando dell’archivio della sorella, «catalogare e schedare migliaia di file digitali, ma anche negativi su pellicola, è la parte più impegnativa». «Della serie Les Marocains finora è stata esposta solo una minima parte – spiega ancora -. Ci sono anche tanti lavori inediti, come quello realizzato in India o quello di Parigi. Stiamo cercando di riscostruire il suo percorso attraverso gli scambi email e i suoi appunti. Di solito quando Leila scattava, poteva essere nell’arco di una giornata come di una settimana, mandava sempre una prima selezione di immagini a tutta la famiglia. L’email era indirizzata a mia sorella Yasmina, ai miei genitori e a me. Chiedeva il nostro parere. Di solito la prima a rispondere era mia madre, io ero l’ultimo! Tutti noi, comunque, eravamo molto coinvolti nel suo lavoro».

PER TUTELARE il lavoro di Leila Alaoui, esposto fin dal 2009 all’Institut du Monde Arabe, alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi e in altri eventi internazionali come la Biennale di Marrakech e Dak’Art 2016, è stata creata la fondazione che porta il suo nome. Nella stessa città, Marrakech, dove il 14 febbraio di quest’anno il Centro culturale francese le ha dedicato anche una sala cinematografica. Tra gli obiettivi della Fondation Leila Alaoui, oltre che diventare un museo, c’è l’istituzione di un premio fotografico e di workshop fotografici anche per bambini.

La fondazione è strettamente collegata con Station, la piattaforma multidisciplinare dedicata alle arti contemporanee che proprio Leila, insieme al fidanzato Nabil Canaan, aveva inaugurato a Beirut nel 2013. Insieme avevano trasformando la vecchia fabbrica che apparteneva alla famiglia di lui. «Il primo anno abbiamo fatto molte sperimentazioni: arte, teatro, musica. Ma con il tempo ci siamo focalizzati su fotografia e video, vista la mia formazione in film documentari e quella di Leila Alaoui in fotografia e installazione – afferma Nabil Canaan – Lei era molto interessata alla questione migratoria. Il suo ultimo progetto, che non è ancora mai stato mostrato, parla proprio delle seconde e terze generazioni di emigrati in Francia, a partire dagli anni ’50. A Beirut, invece, aveva lavorato con i rifugiati siriani, recandosi con diverse Ong in Giordania, Iraq, lungo il confine con la Turchia. Non ho voluto chiudere Station dopo la sua tragica morte, perché è l’unico bambino che abbiamo avuto».