Il loro nome – Chelpa Ferro – rimanda a un antico modo, molto colloquiale, di indicare il denaro in portoghese. Ed è proprio intorno al valore economico e a quello di «scambio della merce» che il trio brasiliano (composto da Barrão, Luiz Zerbini e Sergio Mekler) ragiona, attraverso una serie di performance che mixano cinema, musica e arte. In verità, al collettivo interessa un coinvolgimento fisico, che spoglia gli oggetti della quotidianità di ogni valenza funzionale per riportarli al puro suono, alla tattilità, al loro prendersi lo spazio con un ingombro tecnologico, coltivando la trasformazione attiva al posto della dismissione obbligata. Il pubblico che si aggira nei paesaggi residuali dei Chelpa Ferro è invitato a partecipare alla festa dei «materiali umili» e a promuovere il loro riscatto nel mondo. Poco conosciuti in Italia, anche se nel 2005 hanno rappresentato il Brasile alla Biennale di Venezia con una installazione che faceva navigare i suoni nell’acqua, ora i tre artisti del collettivo sono approdati a Milano presso la Marsèlleria (fino al 2 marzo) con la loro personale Spacemen /Cavemen.

Nella vostra idea di relitto della civiltà industriale che diventa feticcio, opera d’arte, si insinua forse una critica alla società e soprattutto alle pratiche economiche presenti nel mondo capitalista?
Usiamo oggetti comuni semplicemente perché si trovano attorno a noi e li recuperiamo. Crediamo fermamente che questi oggetti (anche dismessi) possano rappresentare qualcosa di più di quello che sono, e che contengano molte più possibilità e potenzialità rispetto alle loro funzioni originali.
La proposta contenuta nei lavori del nostro collettivo è legata proprio al tentativo di offrire al pubblico diverse visioni e nuovi significati di ciò che ci circonda. Niente è troppo esplicito e non esiste un messaggio unico. È tutto più complesso e misterioso di quello che vediamo. Così, ognuno può inseguire la propria visione personale.

Chelpa Ferro_ Spacemen_Cavemen 3_Ph. Rafael Canãs
[object Object]

A Rio de Janeiro c’è una delle più grandi discariche del mondo. Un artista come Vik Muniz l’ha scelta per il suo progetto «Waste Land» lavorando insieme alle persone, fra le più povere del paese, che raccolgono ogni giorno gli «scarti». Avete mai pensato, con i vostri assemblaggi, di raccontare quel luogo?
Abbiamo fatto una cosa simile anche noi, però ci siamo mossi nella Favela da Maré. È stata un’esperienza grandiosa. Ma è pure importante che quegli individui possano uscire dalla loro condizione simile alla schiavitù. Ciò che realmente serve è uno scambio vero.

Dallo spazio alla caverne (per riecheggiare il vostro titolo) è un percorso che procede al contrario rispetto a quello proposto dalla storia dell’umanità. Stiamo invertendo la rotta, distruggendo il pianeta?
Il titolo dell’installazione, Spacemen/Cavemen, è immaginato come fosse un’unica parola. Nella nostra concezione non c’è differenza tra gli uomini delle galassie e quelli primitivi, che abitavano nelle caverne. Non siamo sottomessi a un’idea lineare della storia. Ci piace pensare che le due dimensioni convivano: contemporaneamente, troviamo lo spazio e le caverne all’interno della stessa persona. Uno scrittore brasiliano, Fausto Fawcett, una volta ha scritto che «ogni Jetson ha un Flinstone dentro di sé». L’idea di Spacemen/Cavemen è molto poetica; è un’installazione che funge da rete per creare contatti, costruire connessioni con altri tempi e altri spazi. È il nostro interesse primario: aprire nuove possibilità di relazione. Spacemen/Cavemen è un’antenna senza tempo.

Arte, musica, cinema: come sviluppate  la convivenza di queste discipline nelle vostre performance?
Siamo tre persone diverse e abbiamo competenze in differenti campi. Il nostro obiettivo è quello di cancellare le frontiere tra suono e visione. Usiamo il suono come fosse un materiale, siamo concentrati sugli effetti fisici dei suoni stessi e, in questa maniera, proviamo a rimescolare anche i sensi umani.

Cosa si può dire della situazione del Brasile oggi?
Il nostro paese sta attraversando un periodo convulso. Conviviamo con una delle situazioni di maggiore iniquità sociale al mondo, che spinge il Brasile a vivere in uno stato di perenne violenza. È una guerra civile non ufficiale. C’è inoltre una popolazione carceraria enorme, per la maggior parte composta da giovani e da neri. Non sono presenti investimenti nell’educazione e nella cultura. Viviamo come fossimo sotto un colpo di stato. Il nostro presidente e una buona parte del governo sono stati accusati di corruzione. Invece di utilizzare il denaro per le nuove tecnologie, energia pulita, i crimini ambientali sono fuori controllo in Amazzonia, supportati e finanziati dal business agroalimentare che crede che le monocolture di soia e canna da zucchero risolveranno la crisi economica.