Dal primo dopoguerra degli straripanti carretti, delle teorie di tram scampanellanti, delle mille anime affaccendate tra la Lubianka e il Maneggio della Saga moscovita di Vasilij Aksenov, Mosca in fondo, non è mai cambiata. Anzi, gli ultimi vent’anni, complici le congiunture della crisi mondiale del 2008, ne hanno accentuato i tratti di vorticosa capitale euroasiatica. Divisa in due dalla maestosa Moscova, austera, solenne, pulita, Mosca ha sorpreso piacevolmente i milioni di turisti che si vi ci sono affacciati un anno e mezzo fa per i mondiali di calcio.

MOSCA È UNA DELLE CITTÀ a più alto tasso di rischio di terrorismo del mondo. Il ruolo giocato dalla Russia nella guerra in Siria, la presenza in città di moltissimi lavoratori-migranti delle repubbliche centroasiatiche, il pericolo di «foreign figher di ritorno» dello Stato Islamico hanno trasformato questa metropoli in un’area tra le più sorvegliate del globo. Tutti gli accessi alle 306 fermate della metropolitana sono dotati di metaldetector e di un sistema di riconoscimento facciale per mezzo di migliaia di telecamere installate in ogni angolo della città (secondo solo a quello introdotto a Shangai) che permette di controllare i comportamenti di tutti gli abitanti e ospiti della città. Per i critici un sistema di disciplinamento sociale orwelliano, per i sostenitori un modo di garantire a sciami di ragazzi di circolare senza paura anche di notte, in una metropoli dove davvero le luci non si spengono mai.

DA QUASI DIECI ANNI non c’è un censimento della popolazione di Mosca ma gli algoritmi parlano di 12,5 milioni di abitanti a cui ne vanno aggiunti altrettanti residenti in quella che fino a non molto tempo fa era Podmoskvoj, la provincia, ora inghiottita nella grande pancia della megalopoli.

«Sono arrivata qui da Saratov nel 2008, in provincia non si trova più lavoro» dice Larisa una ragazza sui trent’anni che fa la cosmetologa in un centro di bellezza. Inizia a lavorare alle 9 del mattino, finisce 12 ore dopo e ci mette un ora e mezza per tornare a casa. «Nell’area dentro la tangenziale con i miei 45mila rubli (600 euro al mese circa) di stipendio al mese è impossibile abitare» sostiene Larisa. La capitale è la sola città della Federazione dove si trova lavoro senza problemi (solo 1,5% di disoccupazione certificata) ma dove i salari seppur più alti che nel resto del paese, non riescono a star dietro all’aumento dei prezzi.

Se i confini urbani un tempo erano delimitati dagli spanlij raion, i quartieri dormitorio caratterizzati dai palazzoni a 14-16 piani di epoca brezneviana, i novij rajony (nuovi quartieri) che si estendono ancora più lontani dal centro, sono complessi residenziali moderni con appartamenti dotati di parabola satellitare ma realizzati con pochissimi servizi e infrastrutture e il cui perno è rappresentato dal centro commerciale multifunzionale.

Oggi si fa fatica a immaginarlo ma Mosca era stata in buona parte distrutta durante la seconda guerra mondiale e molte famiglie erano costrette alla coabitazione (komunal’ny) se non alla vita nelle baracche. Per rispondere alla crisi abitativa intervenne un grande piano nazionale dello Stato negli anni ’50 con la costruzione di caseggiati a basso costo, prefabbricati a pannelli, le cosiddette krušcevke. Le krušcevke erano edifici modesti a 5 piani senza ascensore composti di appartamenti di 1 o 2 vani: case modeste ma che alimentarono il russian dream degli anni ’60 di milioni di famiglie.

DAGLI ANNI ’90, dopo il crollo dell’Urss, un boom immobiliare, spesso disordinato, ai vecchi difetti del piano regolatore ne ha aggiunti dei nuovi. Nella lunga fase dell’amministrazione di Jurij Lužkov (è stato sindaco ininterrottamente dal 1992 al 2010), i processi di privatizzazione del suolo hanno favorito lo sviluppo verticale della città, plasticamente espresso dal nuovo skyline della capitale che accoglie gli uffici della city moscovita.

Tali dinamiche si intrecciano ora, «nell’era della stabilizzazione» guidata dal attuale sindaco Sergej Semënovic Sobjanin, con il progetto renovacij (rinnovamento) che prevede l’abbattimento di 7.900 krušcevke e il reinsediamento di 1,6 milioni di abitanti in nuove abitazioni del 20% più grandi in zone della città più periferiche. Un’operazione in cui alcuni hanno visto le stimmate dell’operazione speculativa. Una parte dei residenti si oppone al trasferimento colto come un vero e processo di deportazione e gentrificazione di storici spazi e quartieri della città e propone una riallocazione che permetta di mantenere intatta la dimensione sociale della Mosca del secondo dopoguerra, animando dal 2017 un ampio movimento anti-renovacij.

Il cuore di Mosca resta comunque fortemente segnato dal periodo sovietico e in particolare dall’architettura neoclassica staliniana intessuta in ciò che è rimasto del periodo imperiale. Si tratta di una dimensione già colta nelle atmosfere fantasmagoriche e oniriche delle opere di Michail Bulgakov, la cui residenza sulla Bolšaja Savodova è stata trasformata in museo con annesso un piccolo teatro dove 365 giorni all’anno vengono proposte le sue pièce più famose.

MALGRADO MOSCA debba cedere lo scettro a San Pietroburgo quando si parla delle tre rivoluzioni russe, una volta divenuta capitale (Valentina Parisi lo ha messo bene in luce nella sua Guida alla Mosca ribelle) ha monopolizzato l’immaginario collettivo mondiale anche da questo punto di vista con la stella rossa sul Cremlino e il mausoleo di Lenin. Se passate dalla Piazza rossa, proprio sul retro del mausoleo, non perdetevi quindi una sosta anche alla lapide posta sotto le mura del Cremlino dove fu sepolto un ribelle per eccellenza come John Reed, il giornalista americano autore dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo.

Mosca non ha mai perso la dimensione di città contraddittoria, a cui stanno strette le severe guglie delle “sette sorelle”, gli splendidi grattacieli sovietici sparsi per il centro che ricordano la sua vocazione imperiale e la sua tensione burocratica.

Sull’Arbat, il budello pedonale diventato oggi oggetto di passeggiate e shopping turistico, si può ancora cogliere la eco – tra i murales e i suoi suoni distorti delle garage band che vi si esibiscono la sera – del “Sistema”, il microcosmo hippy russo dei primissimi anni ’70, ingenua replica della contestazione occidentale che si innervava però sulla grande tradizione sviluppatasi tra le due guerre delle comuni russe.

Del resto anche se il variegato movimento democratico esploso questa estate preferisce ritrovarsi in Piazza Pushkin, le manifestazioni non autorizzate anche oggi finiscono per rifluire ancora da queste parti, cercando forse quell’ispirazione che 50 anni fa spinse dei ragazzi russi a manifestare per la libertà del Vietnam e della Cecoslovacchia.